martedì 28 dicembre 2021

Frutta secca

Alzi la mano chi non li ha mai mangiati. Parlo dei fichi secchi: al naturale o con la mandorla o intinti nel cioccolato fondente, sono un classico dolce del periodo natalizio. Li trovi nelle ceste, nelle calze della Befana, nelle gastronomie, nei negozi di dolciumi o nei piccoli alimentari di quartiere. Oppure, in senso figurato e sportivo, in quelle squadre che cercano di raggiungere il massimo risultato stringendo i denti, chiedendo il massimo (o l'eccesso) a forze non sufficienti sul piano numerico.

Le famigerate nozze con i fichi secchi sono divenute nel corso della storia una costante immancabile, neanche fosse una tradizione da rispettare. E non fa eccezione l'attuale TvB che nella prevedibile, forse prevista, sicuramente immancabile crisi invernale (una costante dal primo anno di A2) sta faticando e perdendo terreno in classifica. Nulla di cui stupirsi, se si guarda la situazione con occhio clinico: reparto ali ridotto da inizio stagione a due giocatori, entrambi vittime di recenti infortuni (ed uno lo rivedremo non prima di fine gennaio); oggettivo calo fisico dopo la partenza di gran carriera di settembre-ottobre; malanni di stagione che abbassano le difese immunitarie ed incidono anche sulle capacità difensive in campo dei singoli. Il conto è presto fatto.

Quel che ai più forse non torna è il conto economico. Perché magari si pensava (a torto) che la partecipazione ad una Coppa europea comportasse un aumento deciso del budget. Senza dimenticare che giusto un anno fa la società Treviso Basket doveva far fronte all'ammanco delle previsioni (comunque al ribasso) di incasso da botteghino e che in funzione della precedente sospensione per pandemia aveva dovuto tagliare le spese di un 30%, sarebbe opportuno ricordare che TvB non ha un budget di prima fascia dai tempi dell'A2. Questo perché tolti i multimilionari di Milano e Bologna-Virtus e tolta (finché dura) Venezia che comunque di soldi continua a spenderne, è difficile per non dire quasi impossibile ambire alle migliori posizioni senza qualche colpo di fortuna in un campionato in cui oltre metà dei club partecipanti hanno un budget annuale compreso tra 3 e 4,5 milioni. Il mecenate è una razza in via d'estinzione e che anche in proporzioni inferiori rispetto ai signori Armani e Zanetti tende a non firmare assegni in bianco - per referenze, chiedere a quel Mauro Ferrari di Brescia che nella sua rivoluzione interna deve fare i conti con i tanti euro da dare a Luca Vitali e Vincenzo Esposito per tenerli in vacanza forzata. Ecco spiegato il ricorso ai fichi secchi, buoni e gustosi ma terribilmente poverelli di alternative, come protagonista del pranzo domenicale e, quando c'è la Coppa, infrasettimanale.

Vogliamo scendere nello specifico? Treviso Basket parte già annualmente con una zavorra chiamata Palaverde: impianto ancora bello nonostante sia prossimo ai 40 anni di onorato servizio, però privato e con un costo d'utilizzo affatto basso. Molte altre realtà possono contare su convenzioni con gli enti comunali o ex provinciali per ottenere l'utilizzo in esclusiva ed a prezzi stracciati dell'arena in cui ci si allena e si gioca. TvB no. Anzi: deve pure convivere con Imoco Volley, che ha la precedenza in diverse situazioni visto e considerato che utilizza di più lo stesso palasport, in cui ha trasferito anche la propria sede operativa. Se altrove si trovano soluzioni che permettono di non incidere sul bilancio, magari con il naming sponsor dell'arena, a Treviso tocca fare buon viso a pessimo gioco da tempo immemore. D'altronde, o così o nulla. E che dire del preliminare di BCL? Anche quello è un costo, sostenuto volentieri per agevolare il compito del team di lavoro, ma pur sempre un costo.

Veniamo alla squadra. Alcuni rinnovi al rialzo, altre conferme ai vecchi prezzi. Qualche occasione, anche: Henry Sims ad esempio ha accettato un ingaggio al ribasso rispetto alle sue abitudini, visto che proveniva da un paio di esperienze affatto esaltanti - ed a giudicare dal suo linguaggio del corpo difensivo, è comprensibile il motivo del taglio a Reggio Emilia la scorsa primavera. Il tanto criticato (a torto) Aaron Jones è il lungo più utile in fase difensiva, ma pochi sanno che costa meno di un Echodas (che Venezia taglierà a breve dopo tre mesi esasperanti) o di un John Egbunu, fresco di fuga dal manicomio varesino per migrare in Israele. E Chillo? Il vituperato Chillo? Il bolognese avrà tanti difetti, a cominciare da quello di non essersi vaccinato preventivamente per il Covid-19, ma è difficile trovare un 4-5 italiano da rotazione col suo costo in Serie A.

Fichi secchi, dunque. Come quando anni fa si tagliò Burnett per far spazio salariale per inchiostrare Alj Nikolic, prendendo poi come ala piccola l'impresentabile Turner ed il tristissimo Cooke III - per gli amanti delle curiosità, Biscotto3 dopo un'inattività di un anno è ora nel roster degli affatto irresistibili Hamilton Honey Badgers, formazione di una misconosciuta lega minore canadese. La coperta è corta, da qualunque parte la si tiri. Ma se c'è qualcosa che va imputato alla società ed allo staff tecnico per la situazione attuale, questo può essere piuttosto l'aver compiuto alcune scelte estive non del tutto assennate. La prima è l'aver composto una squadra di dieci elementi con due sole ali, Sokolowski e Akele: il primo sta vivendo con difficoltà il cambio di ruolo nelle gerarchie interne, passando da un sistema in cui doveva supportare il solista di squadra ad un altro in cui deve fungere da collante tra regia e lunghi con i soliti compiti offensivi a contorno; il secondo era cresciuto parecchio di rendimento rispetto alla scorsa stagione ma sul più bello si è beccato la gomitata assassina ed ora è costretto ai box, sperando che al rientro la mira sia rimasta quella antecedente alla porcata dei lettoni.

La seconda scelta, che giudico ancora incomprensibile, è quella di Casarin. Il ragazzo è giovane, si deve formare, deve aver diritto a sbagliare in campo, bla bla bla. Ok, va bene. Ma partiamo da un presupposto: Casarin non ha un ruolo. Non è né sarà mai un play, visto che non sa leggere le situazioni e non ha la necessaria sicurezza; non è una guardia, con quel tiro ondivago e quelle iniziative estemporanee frutto più della voglia di spaccare il mondo di un diciottenne che di un vero talento innato; forse potrebbe essere un 3 tattico, di quelli che usano il fisico in difesa e che compensano con l'esuberanza e la stazza l'assenza di centimetri. Ma c'è un problema, bello grosso: Casarin è sparito dalle rotazioni. Il motivo è semplice: è acerbo, non pronto per questo livello e soprattutto non riesce a fornire ciò di cui la squadra avrebbe un disperato bisogno. Quattro minuti a Brindisi, senza incidere, zero contro Brescia e, nel mezzo, unico insufficiente nella vittoria di squadra contro un'AEK eliminata ed in crisi finanziaria. Insomma, inutile prima ancora che dannoso. E dire che in A2 ci sarebbe un certo Alvise Sarto, prodotto delle giovanili TvB (e prima Benetton...) che sta facendo le onde alla JB Monferrato ("Non chiamatela Casale", come dice l'amico e collega Stefano Valenti), vale a dire una formazione partita per salvarsi con un progetto giovani ed attualmente quarta in classifica con il ragazzo trevigiano miglior marcatore. Ancora mi chiedo quindi perché accettare il patto biennale con Casarin padre per svezzare qui il figlioletto, manco fosse un altro Bortolani o Moretti, invece di riportare a casa un ragazzo in costante crescita e che già conosce l'ambiente. Bel mistero. Intanto, alla luce di infortuni lunghi, risultati allarmanti e prospettive di Coppa, la società sta cercando un 3-4 (toh, il ruolo di Soko e Akele!) straniero come soluzione tampone e puntello per la BCL. Chissà quando e se si concluderà la ricerca. Chissà, soprattutto, se qualcuno dei candidati si accontenterà di una calza della befana con dei buonissimi ma scontatissimi fichi secchi.

martedì 23 novembre 2021

2021: fuga dalla Fortitudo

Vi ricordate Jena (Snake) Plissken di Kurt Russell, il povero Donald Pleasence nei panni del presidente USA, il mitico Ernst Borgnine come improbabile tassista, una New York post apocalittica trasformata in penitenziario all'interno della magnifica visione distopica di John Carpenter? Bene. Dimenticate la fantascienza di "1997: Fuga da New York" e concentratevi su una pellicola di possibile, prossima realizzazione, il cui soggetto è materia d'aggiornamento quotidiano (o quasi) negli ultimi due mesi. Il titolo è presto fatto: "2021: fuga dalla Fortitudo".

Il primo in ordine di tempo ad andarsene è stato il timoniere, l'head coach designato, quel Jasmin Repesa tornato nella metà biancoblu di Bologna con le migliori intenzioni e scappato alla prima occasione, vale a dire dopo una Supercoppa prestagionale da incubo ed un debutto in campionato davvero pessimo. Le motivazioni di circostanza erano le solite, ovvero motivi di salute: Repesa non se la sentiva più di continuare, troppo stressante la mole di lavoro da affrontare in una società che, per sua stessa ammissione, andava risistemata. Nessuno ha voluto scavare all'interno di quelle dichiarazioni sin troppo sibilline, anche se era facile leggervi una insoddisfazione per troppe questioni aperte, dal mercato condotto in maniera abbastanza indecifrabile sino alla telenovela-Fantinelli.

Ecco, Fantinelli può rappresentare il secondo, teorico abbandono. Dico teorico perché in realtà Matteo a Bologna c'è ancora, fisicamente. Solo che, vista la pessima piega degli eventi, difficilmente lo si vedrà in campo a breve-medio termine. Già l'intervento estivo di pulizia del tendine ha determinato un lunghissimo periodo di inattività - forse troppo lungo, forse mai del tutto chiarito anche a Repesa, che si è visto promettere ben altro; poi, poco dopo il teorico via libera alla ripresa dell'attività in gruppo, ecco un nuovo guaio: edema osseo, altro stop e stagione compromessa. Bisogna dire che Fantinelli non è mai stato fortunato con i malanni fisici, tra problemi alla schiena e fasciti plantari che ciclicamente riemergevano: stavolta il guaio è più serio, merita i migliori auguri ed a fronte di un rinnovo contrattuale siglato la scorsa estate ci si può domandare se la mala sorte non abbia deciso di accanirsi su di lui.

Poi ci sarebbe Keith Langford. Che dalla Fortitudo è fuggito prima ancora di metterci piede. Situazione paradossale: la società taglia Malachi Richardson (pupillo di Repesa, malvisto da Martino) per prendere un giocatore meno duttile ma con più punti nelle mani. Il veterano americano è il bersaglio prediletto: sarà vecchio e magari senza il primo passo bruciante di un tempo, sarà anche un elemento difficile da gestire in spogliatoio, ma Langford è Langford. Tutto fatto in meno di dieci giorni, accordo raggiunto ma il giocatore non sbarca mai al Marconi. Motivo? Semplice: è fermo da parecchi mesi e a 38 anni suonati ha bisogno di almeno tre settimane (se bastano...) per tornare ad uno stato di forma decente. Ci sarebbe anche la questione degli arretrati ancora non incassati all'AEK Atene, sua ultima squadra, ma a molti appare come un inutile dettaglio.

La quarta fuga, comunque autorizzata anche se non priva di ricadute, è quella di Tommaso Baldasso. Che nella Bologna biancoblu era arrivato meno di un anno fa dopo un'altra fuga, quella dalla defunta Virtus Roma di Toti, scomparsa a stagione in corso. Approdando in Effe, Baldasso si era abbandonato ai soliti proclami che tanto piacciono ai tifosi: cuore Fortitudo, ammirazione per l'ambiente, voglia di lottare, bla bla bla. Alla riprova dei fatti, pur risultando un giocatore utile ma non fondamentale (e più guardia che play, come scoperto dallo stesso Repesa), non ha resistito poi molto. Appena Milano ha scoperto i problemi fisici di Delaney e soprattutto ha saputo della positività al doping di Moraschini - a proposito: ma chi è che fa circolare nello spogliatoio meneghino la pomata proibita di cui era già stato utilizzatore Burns? - la caccia ad un regista italiano si è aperta. Ed ecco arrivare la trattativa con Baldasso, trapelata nel weekend e chiusa ufficialmente soltanto ieri. Col giocatore che, per non sminuire la retorica di cui sopra, si concede altre dichiarazioni di presunto amore per la maglia, confermando comunque l'addio. Insomma, altro che "Per amore eccetera": carriera e soldi vengono prima, poche balle.

L'ultimo a scappare, questo sì a sorpresa, è Brandon Ashley. Che di tutti gli stranieri passati per la Effe era stato, assieme al rinforzo in corsa Durham, il meno peggio ed il più costante. All'allenamento pomeridiano di oggi, Ashley non c'era. Infortunato? No, e comunque l'infermeria felsinea è già abbastanza piena. Non possedendo altra cittadinanza sportiva se non quella statunitense, è impossibile che il giocatore fosse convocato per una Nazionale. Semplicemente il lungo americano se ne è tornato a casa senza avvertire. A scoprirlo prima di tutti è stato il suo compagno di club Robin Benzing incrociandolo in aeroporto a Francoforte: il tedesco è rientrato in patria per rispondere alla chiamata della propria Nazionale e, vedendo un volto a lui noto, ha salutato e chiesto dove fosse diretto ottenendo la più semplice delle risposte, cioè "Torno a casa". Se è stata una leggerezza ovvero una dimenticanza ("Scusate, il campionato è fermo, ho pensato di tornare a far visita ai miei, non sapevo di dover avvertire") lo si saprà solo nei prossimi giorni. Il sospetto che serpeggia è che Ashley abbia solo colto al balzo l'opportunità di andarsene da Bologna. Resta da capire se sia solamente un colpo di testa isolato o una fuga ponderata, magari con motivazioni che possono spaziare in tante diverse ipotesi, dal rapporto magari non eccelso con il coach ad eventuali ritardi nella corresponsione degli stipendi. Quel che è certo è che se uno scrittore volesse redigere il soggetto di un film, già con queste fughe avrebbe abbastanza materiale. Sempre che lo stillicidio sia finito. E mentre la tifoseria rumoreggia e continua a chiedere spiegazioni di troppe scelte sbagliate - Meo Sacchetti ancora ringrazia - e di troppe voci allarmanti sulla tenuta economica di un club che si è iscritto al campionato in corso per il rotto della cuffia, ci si domanda se anche questo sia, utilizzando l'hashtag introdotto da LBA, #TuttoUnAltroSport.

martedì 16 novembre 2021

Tutto molto prevedibile

E siamo a tre. Dopo il fulmine a temporale già accennato (Repesa) e la condanna scritta in partenza (Petrovic) è arrivato il turno del predestinato. Non parlo di LeBron ma di Demis Cavina che, rispettando in pieno il pronostico, non mangerà il panettone a Sassari. Perché stupirsi? Era chiaro, limpido, cristallino che la testa del tecnico emiliano fosse sacrificabile, semmai qualcuno si sarà stupito per la separazione anticipata da Clemmons rispetto al divorzio in panchina nell'aria da tempo. Ma cos'hanno in comune Repesa, Petrovic e Cavina? Una cosa semplice: tutti e tre erano le persone sbagliate nel posto sbagliato. E sono tornate a casa: chi volontariamente e chi meno.

Che Cavina dovesse rilevare il posto di Pozzecco alla Dinamo lo avevano capito anche i più ingenui già un anno fa, quando gli episodici scoppi di pace armata tra il cardinal Sardara e l'estroso triestino punteggiavano un confronto serrato che non si vedevano dai tempi del primo Boniciolli in Fortitudo (periodo 2001-2002, per i più deboli di memoria). Ma solo chi non conosce la pallacanestro poteva pensare che Cavina fosse un allenatore non solo da Serie A ma addirittura da formazione con delle ambizioni. Non si parla qui di un tecnico alle prime armi, che può invocare l'inesperienza come scudo difensivo personale, né di un soggetto che dopo un periodo trascorso lontano da palestre e panchine ci riprova. Cavina allena da quasi un quarto di secolo, anche se ha iniziato piuttosto giovane tant'è vero che appena ventiseienne si ritrovò in A2 alla guida del fu Progresso Castelmaggiore. Ma se in questa lunga carriera l'unica esperienza nel massimo campionato risaliva ad un poco esaltante precedente a Roseto, qualcosa vorrà pur dire.

Ecco, Roseto. Cioè Michele Martinelli, il picconatore, l'uomo del caso Sheppard, il liquidatore della Fortitudo post-Seragnoli. Quando chiamò Cavina in Abruzzo, Martinelli fece una delle sue tante scommesse in una stagione dalle premesse abbastanza semplici - annata a squadre dispari, una sola retrocessione, Reggio Calabria menomata dal ciclone Barbaro e partita a handicap, Verona già condannata a sparire per fallimento imminente - e dunque con un paracadute piuttosto ampio. Ebbene, come finì l'avventura di Cavina a Roseto? Male, ovviamente: in una multinazionale del canestro in cui il vecchio ma arzillissimo Mario Boni recitava la parte del leone, si ritrovò triturato da uno spogliatoio affatto remissivo e da un bilancio piuttosto magro di 5 vittorie e 12 sconfitte, tanto da venire sostituito da tale Bruno Impaloni. Impaloni chi? Ecco, appunto: l'allora vice degli Sharks che poi sarebbe passato in fretta ad un ruolo dirigenziale, non rinnovando nemmeno la tessera da allenatore. Tanto dovrebbe bastare a chiarire i contorni della vicenda.

Da quell'esonero in poi, Cavina è stato un coach da A2. Che non è certo un male, visto che in cadetteria ci sono ottimi tecnici che però sono perfettamente consci di non possedere le qualità per allenare (almeno, non con un incarico apicale) al piano di sopra. Per diciannove anni, Demis Cavina non è più stato cercato da club di A, nemmeno da quelli alla canna del gas per esonero del coach titolare o per situazione di classifica deficitaria. In compenso l'A2 l'ha vissuta un po' da ogni latitudine, tra società ambiziose (anche un passaggio a Sassari con finale-promozione persa nel 2009), club in crisi e realtà in prepotente emersione dal basso. Ha pure dei meriti innegabili, Cavina: per referenze, chiedere a Davide Alviti che sotto le sue cure, a Tortona, passò dall'indigesto ruolo di ala grande a quello più congeniale di ala piccola avviando una carriera finora in continua ascesa.

Il problema di fondo di Cavina è non aver mai centrato un risultato assoluto. Niente trofei in bacheca, nessuna promozione dai tempi ormai dimenticati del Progresso: in un basket che si nutre anche di curricula, è un difetto evidente, acuito dal fatto di aver invece fallito in più di un'occasione. Per referenze chiedere a Udine, che aveva scommesso pesante su di lui nel 2018 e che lo ha cacciato dopo pochi mesi, nonostante la classifica non fosse disprezzabile: si parlò di dissapori, di risultati inferiori alle attese, va a sapere cosa c'era di vero. Poi è piovuta dal cielo l'occasione-Sardara con l'operazione Torino, il trapianto della fu Ferentino e poi Cagliari sotto la Mole (in barba alle regole federali sui trasferimenti di titoli, vabbè). Il primo anno, ottimi riscontri fino allo scoppio della pandemia; al secondo giro, sembra che nulla e nessuno possa togliere allo junior team della Dinamo la promozione... almeno sino a quegli attimi finali di gara-5 con Tortona. 

Ed allora, perché Cavina meritava la Serie A? Per un patto non pubblico o non palese con Sardara? Perché in un club la cui proprietà (solo quella?) va a scadenza annunciata, occorre a volte gabellare una scelta casalinga ed a risparmio per una mossa coraggiosa? Per una sorta di operazione-trapianto malriuscita, visto che nell'isola il tecnico si era portato anche Diop che comunque è di proprietà Dinamo da quando nel 2018 la Virtus Feletto ha monetizzato l'investimento iniziale? Chi ci capisce è bravo. Sta di fatto che la rimpatriata a Sassari non è certo una specialità: deve averlo capito anche David Logan, che a quanto pare non aveva così tanta voglia di smettere dopo un campionato di alto livello con Treviso e che a 38 anni suonati è riuscito a convincere Sardara e Pasquini ad offrirgli un nuovo (ovviamente sostanzioso) contratto, riportandolo anche all'antico ruolo di playmaker. E sarà proprio Logan, assieme ad un altro riciclato della cabina di regia come Stefano Gentile, ad ereditare la guida del timone in campo di una Dinamo in piena crisi, malmessa in LBA e appesa ad un filo in BCL. Tanto per non farsi mancar nulla, poche ore prima di silurare Cavina il club sardo ha annunciato il ritorno di Filip Kruslin, un ex pretoriano di Pozzecco. Che comunque non tornerà a Sassari: il rapporto con Sardara è finito, fare il vice di Messina all'Olimpia è divertente oltre che remunerativo ed in fondo a Milano ha pure spazio occasionale per le sue esuberanze. Toccherà invece a Piero Bucchi, le cui ultime uscite in panca sono tutto fuorché esaltanti - subentrato e retrocesso a Cantù, scomparso a Roma e Caserta, dimissionario a Pesaro; insomma, non un profilo così rassicurante anche se il curriculum complessivo è diverso da quello del predecessore. Immagino gli scongiuri dei tifosi sardi più scaramantici: passare da un coach non promosso dall'A2 ad uno che in A2 ci era finito sei mesi fa non è esattamente confortante.

lunedì 27 settembre 2021

Altro che fake!

Non ci si può proprio annoiare. Pronti, via... e la prima panchina di LBA salta subito. E non tanto (o solamente) per una sconfitta casalinga che brucia contro una diretta rivale per la salvezza. La decisione palesata in conferenza stampa di Jasmin Repesa di abbandonare la Fortitudo che aveva riabbracciato dopo 15 anni di lontananza fa e farà discutere. Per i modi, i tempi e le proporzioni della vicenda, il saluto del tecnico croato non può essere ricondotto al classico fulmine a ciel sereno. C'è qualcosa che non va, nella metà biancoblu di Basket City. Ed è da tempo che quel qualcosa non sta andando.

Repesa era tornato a Bologna, sponda F, con entusiasmo e sulla spinta di due fattori. Il primo, una bella annata con Pesaro che gli aveva tolto ruggine e scorie di derivazione milanese, masticato e sputato come altri prima e dopo di lui dal perverso giochino dell'Olimpia condannata a vincere ma troppo ansiosa e poco equilibrata nelle eccessive missioni al proprio interno. Alla Vuelle Repesa aveva condotto sino alla finale di Coppa Italia una squadra con un solo centro, un budget medio-basso, un vecchietto da rilanciare e qualche giovane da valorizzare; poi i tanti limiti della formazione marchigiana erano emersi in un girone di ritorno assai complicato, chiuso con una salvezza non del tutto agevole ma sicuramente meno tribolata rispetto al recente passato. Dal mare di Pesaro, Jasmin era tornato ai colli felsinei attirato dal secondo fattore, il progetto di rilancio della Fortitudo basato su alcuni giovani (Toté, Baldasso e la possibilità di prendere Procida) irrobustito da un legame di pancia mai dimenticato. Ai fortitudini quell'allenatore un po' burbero ma decisionista, compagnone fuori dal campo e aggressivo in panchina, piaceva e piace ancor oggi. E non solo perché ha regalato loro il secondo nonché ultimo scudetto della loro storia ma perché ha saputo, con gioco e metodo, far dimenticare il grande amore incompreso Matteo Boniciolli, un altro che è passato per le forche caudine biancoblu rimettendoci prima un incarico e poi la salute.

Pare davvero curioso il parallelismo tra il triestino e il nativo dell'Erzegovina. Boniciolli arrivò a Bologna nel 2001 dopo che in estate sembrava che il posto di Recalcati dovesse essere preso proprio da Repesa e se ne andò a novembre 2002, cacciato dalla coppia Savic-Lefebre per ordine dell'Emiro Seragnoli: la colpa di coach Matteo era stata quella di aver ridicolizzato con un gesto semplice il temuto e volubile patron dopo un derby vinto. Dopo Boniciolli venne Repesa, visto inizialmente con sospetto, poi autore di quattro finali scudetto (una vinta), della finale di Eurolega 2004 (quella del Grande Freddo col Maccabi), del lancio della coppia Belinelli-Mancinelli. Insomma, del periodo più luminoso dell'Aquila subito prima del brusco ridimensionamento. E bisogna ricordare che Repesa se ne andò dall'Emilia quando Seragnoli, pressato dalla famiglia e dai debiti, fu costretto a dire basta. Da lì iniziò il rapidissimo declino della Fortitudo, in tre anni retrocessione e poco dopo pure sparizione. Dalle macerie venne costruita una nuova società che, scontati i peccati di gioventù, si affidò a Boniciolli: il vecchio amore non si scorda mai ed anche lì ci furono buoni risultati (promozione in A2, finale per la A persa 2-3 con Brescia) misti però a periodi di crisi.

Boniciolli lasciò per problemi di salute, si disse di guai al cuore o di ipertensione. Repesa ieri ha accusato (parole sue) una tachicardia. Sono segnali da non sottovalutare, lo scrive chi commettendo l'errore opposto finì a suo tempo ospite dell'Unità Coronarica in Terapia Intensiva. Il parallelo tra i due si ripropone: il triestino mollò in A2, in una posizione di vertice ma senza prospettive di salto di categoria e con la squadra che si sfaldava perché costruita male; il croato se ne va dopo poche partite, zero vittorie ed una crisi tecnica evidente. Oggi come nel 2018, sotto i riflettori c'è la cabina di regia, tecnica e societaria: manca un play in campo e manca una dirigenza affidabile dietro le scrivanie. Il primo problema è risolvibile solo ricorrendo al mercato, il secondo mutando radicalmente buona parte di un club che dopo tanti anni si regge sempre sulle stesse persone che hanno commesso troppi errori.

Per il tifoso medio, la colpa è tutta di Christian Pavani. Il presidente-manager, l'uomo venuto dal marketing, il personaggio di fiducia della proprietà - ma quale? Ancora oggi c'è qualcosa di nebbioso al riguardo - è spesso al centro delle polemiche. Ci finì nel settembre 2018 con la farsa della sponsorizzazione fantasma Metano Nord, una vicenda grottesca. Ci è tornato la stagione scorsa, tra i troppi correttivi in corsa, le maglie metrosexual del derby e soprattutto le problematiche economiche di un club che ha rischiato di non iscriversi per un indebitamento fuori norma - ed anche di questo aspetto, prima o poi bisognerebbe parlare. Ora è nuovamente sotto i riflettori della critica per la manfrina del logo (qualcuno crede alla sua teoria del vintage? Io no), per le trattative con uno sponsor turco decollate solo all'ultimo (e l'ufficio marketing che ci sta a fare?) e per le liti sotterranee con lo stesso Repesa.

Quando una settimana fa l'allenatore partì per tornare a Zagabria e l'ottimo collega Walter Fuochi scrisse di una frattura netta tra lui e la dirigenza, tutta la storia fu bollata come fake news. Ma no, ma cosa ci si inventa, Repesa andava solo ad un funerale, non c'è nulla, sicuramente non ci sono liti, eccetera. Invece la spaccatura c'era e lo si è capito anche ieri, anche se infilata tra le critiche all'arbitro Mazzoni e la morale paternalistica ed un po' sessista all'altro fischietto Silvia Marziali, che invece meriterebbe rispetto come direttore di gara prima che come donna. C'è una frase che Repesa ha pronunciato ieri sera: "Dal primo giorno sto soffrendo come un cane per sistemare questa società...". Solo uno sciocco non capirebbe il significato di quelle parole. Repesa ha mostrato le carte in tavola: il club ha dei problemi, grossi. E risolverli non sarà una bazzecola.

Il guaio più evidente è in campo. La squadra è stata costruita malissimo e senza tener conto della realtà e delle condizioni fisiche dei giocatori. Fantinelli non è pronto oggi e non lo sarà per un bel po', e si tratta dell'unico vero play; Gudmundsson oltre a non essere un regista (idem Baldasso) manca di personalità e di talento come guardia; Richardson non può far tutto da solo; Groselle senza un play che lo inneschi è deleterio; Benzing è un buco nero. Poi ci sono i casini in società, tra sospesi ereditati (quanto chiama il contratto residuo di Meo Sacchetti?), asfissia da mancanza di botteghino, debiti pregressi e molto altro. Sarebbe quasi curioso chiedere in quale cassetto sia finito il progetto del nuovo palasport che nei piani di Pavani doveva rappresentare il futuro della Fortitudo anche a livello finanziario, ma mi rendo conto che non sia affatto igienico farlo ora.

Intanto si è aperta la ricerca di un successore per Repesa. Per quanto Pavani & c. possano insistere, difficilmente Jasmin tornerà sui propri passi ed accetterà di affondare con una barca che non è la corazzata promessa ma una bagnarola che fa acqua da tutte le parti. Sotto contratto c'è sempre Sacchetti, anche lui non intenzionato a tornare ma a godersi i soldi lontano dalla baraonda biancoblu. Luca Dalmonte, defenestrato a giugno per far spazio all'ingombrante cavallo di ritorno, potrebbe anche optare per un signorile "no grazie" mentre è da escludere che un altro separato a forza, Antimo Martino, possa ricucire un rapporto logorato da chi lo ha cacciato con scuse abbastanza puerili. Tra i nomi grossi nostrani restano Bucchi, che oltre ad essere un ex Vu Nera non entusiasma nessuno visto il curriculum recente, Pancotto, Esposito e Luca Banchi, che è vice a Long Island in G-League ma si può liberare. Chissà se il grossetano avrebbe voglia di raccogliere una sfida impossibile, salvare due volte la Fortitudo, col rischio di vedersi licenziare a lavoro compiuto per far spazio ad un'altra scelta di pancia, per compiacere la piazza ma senza progettualità.

domenica 19 settembre 2021

La Salute? Frazione di Santo Stino!

Possiamo dire senza scandalo alcuno che il famosissimo motto di Giannino er Laziale, cioè che il basket italiano godrebbe di ottima salute, è definitivamente archiviato. Con buona pace di chi ancora vive nella torre d'avorio di via Vitorchiano a Roma, è bastato vedere cosa è accaduto e sta accadendo a Bologna, tra ieri ed oggi, per capire che l'unico adagio in voga è quello del pesce abitualmente che puzza dalla testa. Dimenticate pure le gioie di Belgrado, l'orgoglio di Tokyo, i meritati complimenti ad Azzurra e a chi ne faceva parte: quello è un capitolo marginale, anche se bellissimo. No, l'italica pallacanestro sta davvero malissimo e lo si capisce da pochi, evidenti, clamorosi indizi.

Il primo lo abbiamo colto tutti, noi che abbiamo deciso ieri pomeriggio di farci del gran male guardando l'immondo antispettacolo di Milano-Treviso su Eurosport. Non è colpa della squadre, né degli allenatori se invece di una partita si è assistito ad uno scrimmage di bassa levatura tra Eurolega (e dintorni) e Under18: la responsabilità va rintracciata nella pervicace idea di una Legabasket che sta centellinando l'ammazzacaffè senza volersi alzare da quel tavolo ammettendo il proprio fallimento. Seriamente, che bisogno c'era di un'altra maxi-Supercoppa settembrina? Era fallito il primo tentativo nel 2000, quando il basket nazionale viveva ancora di mecenatismo e di bilanci straricchi; il bis a distanza di vent'anni era stato accolto come un test utile, dopo lo stop per pandemia, per rivitalizzare il pubblico e consentire alle società di sperimentare i nuovi protocolli anti-Covid, prima che la seconda e terza ondata della malattia obbligassero a chiudere tutto di nuovo. Ma l'edizione 2021? A che serviva? Che senso ha scimmiottare l'A2, in cui tra l'altro da tempo c'è ampio dissenso, obbligando quasi tutte le iscritte a rimodellare il precampionato sulle basi di un calendario da infarto? E come se non bastasse, sull'immangiabile torta si è posta la ciliegina guasta di un match ingiocabile, frutto avvelenato della miopia dirigenziale, obbligando chi aveva appena concluso (vincendo, tra l'altro) una massacrante maratona a correre di nuovo, senza nemmeno il tempo per rifiatare ed assumere liquidi e zuccheri. Tafazzi al confronto era un dilettante.

Se al peggio non vi è mai fine, se "toccato il fondo si può iniziare a scavare" (copyright Moana's, 1992), se le teorie di Vico sulla ciclicità non vi paiono abbastanza, ecco servita la seconda schifezza. Cioè l'annunciata crisi della Fortitudo, una società sempre più sull'orlo del baratro, finanziario prima che tecnico ed agonistico. Appare evidente che ai signori che gestiscono l'italica palla a canestro non importa nulla di un movimento che perde i pezzi. Non era bastata la farsa di Roma dell'anno scorso? O di Avellino e Torino in precedenza? Evidentemente no. Così oggi troviamo un club senza main sponsor che boccheggia, tra debiti con l'erario spalmati in extremis, improbabili trattative in Turchia, consorzi con capitale sociale inferiore a quello di un qualsiasi panificio, disperate richieste di aprire subito al pubblico sperando che i soliti, ottusissimi tifosi salvino la barca che affonda a suon di soldi per abbonamenti e biglietti. Intanto l'allenatore tanto voluto alias Gelsomino dall'Erzegovina è rientrato in fretta a Zagabria, in via ufficiale per motivi famigliari ma in realtà per ben altre cause. Non è un mistero che Repesa si sia lamentato per la scarsa qualità del roster a disposizione (scelto anche da lui, però) e dei mancati correttivi sul mercato, impossibili da attuare visto che in cassa non c'è un centesimo, figurarsi le cifre folli che Luca Vitali chiede per pareggiare l'eventuale rinuncia all'ultimo anno di contratto con Brescia. Sul campo, la Effe è pietosa, disorganizzata, scoordinata, senza capo né coda. E nei conti societari non è che la prospettiva sia migliore, visto che a bilancio risulta ancora Meo Sacchetti che non ne ha voluto sapere di transare il ricco accordo firmato appena quattordici mesi fa.

Leggo in queste ore di Ataman, che rischia di diventare uno spauracchio alla pari di Gerasimenko, quale possibile salvatore della Bologna biancoblu. Leggo anche dei tifosi indignati, e non solo per le limitazioni al palasport: lo schifo di ieri pomeriggio non viene digerito nemmeno con robuste dosi di Effervescente Brioschi. Silenzio totale dal Grande Capo, che attenderà forse la consegna della Supercoppetta più inutile del mondo per parlare, mentre Umberto Gandini continua a dibattersi sperando di non far la fine del suo predecessore Egidio Bianchi, sempre che non stia pensando "ma chi me l'ha fatto fare?" in relazione alla sua nomina a presidente factotum di LBA. Quel che è certo, come la morte, le tasse e il silenzio dei mammasantissima, è che il basket italiano, ora più che mai, non è nemmeno in vista della Salute. Che in fondo resta una frazione del Comune di Santo Stino di Livenza.

martedì 3 agosto 2021

Come si dice "pagelle" in giapponese?


0# Marco Spissu - Nell'estate del grande cambio, del salto verso la Spagna abbandonando il nido di Sassari, si gode le Olimpiadi. Come turista, senza biglietto e potendo vivere l'emozione dell'esperienza a Cinque Cerchi. Alzi la mano chi non avrebbe voluto essere dodicesimo al suo posto, tenendo presente che in precedenza, al Preolimpico, qualcosa di buono aveva fatto. VOTO NG

1# Nico Mannion - Il rosso che ti movimenta la vita ed il gioco ma cui manca ancora qualcosina per essere determinante. Ricordiamolo: ha vent'anni, mica trenta, ed alla sua età c'è chi ancora fatica a trovar spazio in A2. Il tempo gioca dalla sua parte e se Golden State vorrà credere in lui per ricostruire potrà davvero acquisire quella sfrontatezza e quella capacità di incidere anche lontano dalla palla che oggi gli mancano. Intanto si è tolto le prime, belle soddisfazioni. VOTO 7

7# Stefano Tonut - Arrivato all'appuntamento reduce dal titolo di MVP del campionato (ecco, forse il voto è stato un filino esagerato) e soprattutto dalla migliore annata in carriera, è stato importante nel Preolimpico ma troppo ondivago a Saitama dove nella partita decisiva non ha tenuto Fournier e ha sbagliato l'impossibile. Se accetta il consiglio, segua l'esempio di Fontecchio: rompere con il club in Italia a costo di pagarsi una buonuscita stellare ed andare all'estero. Subito, non tra un anno. Il momento è quello giusto, compirà 28 anni a novembre, ma se non fa ora il salto resterà un ottimo giocatore per LBA ma un elemento di secondo piano in ottica internazionale. VOTO: 5,5

8# Danilo Gallinari - Si è aggregato dopo una massacrante stagione NBA finita col miglior risultato di sempre per lui. Lo ha fatto nel modo giusto, con lo spirito non della superstar ma del gregario. A Tokyo si è pure fatto male ma non ha protestato né ha chiesto tutele: quando il c.t. lo ha chiamato in campo, il figlio di Vittorio ha fatto il suo. Sognava questo momento da 13 anni, l'unico rimpianto è che per motivi anagrafici la sua prima Olimpiade possa anche essere l'ultima. VOTO: 7,5

9# Nicolò Melli - Due anni fa scommise su di sé lasciando il Fener, dove era una stella, per fare il gregario in NBA. Una prima stagione promettete, una seconda inferiore alle attese ma non per colpa sua. Il ragazzo cresciuto a Reggio Emilia e sbocciato a Bamberg prima che in riva al Bosforo è ormai un uomo vero, con attributi e capacità anche di leadership. Giocando sempre fuori ruolo per necessità ha fatto moltissimo. Voglia di continuare? Chiedete a lui, difficilmente risponderà alla Forrest Gump. VOTO: 7

13# Simone Fontecchio - La dimostrazione che il protezionismo di casa nostra è una cretinata assurda e che la collezione di figurine milanesi non serve. Il pescarese è la sorpresa assoluta di questa estate 2021, un giocatore trasformato dall'esperienza in Germania e che promette faville pure a Vitoria. Intanto incendia le retine con movimenti che non vedevamo dai tempi di Carlton Myers, ma senza il caratteraccio del riminese. Bomber vero con umiltà e determinazione. VOTO: 9

16# Amedeo Tessitori - Unico centro di ruolo della spedizione, gioca poco ma quando chiamato in campo non fa poi così male. Certo, per le esigenze tattiche di Sacchetti non è esattamente l'elemento ideale ma il suo lo fa. Specie ricordando che è arrivato in azzurro dopo un infortunio abbastanza serio che gli è costato playoff e scudetto. VOTO: 6

17# Giampaolo Ricci - Pippo è l'emblema di questa Italbasket operaia, umile, battagliera, mai disposta ad arrendersi. Che giochi tanto o poco, non importa: il suo apporto c'è sempre. Chiedere per referenze ai francesi che lo vedono rendere difficilissime le ricezioni in post a Gobert o mandare fuori giri Batum per un +10 di plus/minus che dice tutto. VOTO: 7

24# Riccardo Moraschini - Uno degli invisibili ma a suo modo utili, quando chiamati sul parquet. Bisogna dire che nel suo ruolo in Italia c'è abbondanza e non è escluso che presto possa cedere il posto ad altri. Intanto da bravo soldatino obbedisce. VOTO: 6

31# Michele Vitali - altro ragazzo che stando lontano dal Belpaese e prendendo sonore badilate in faccia è cresciuto in maniera esponenziale, diventando difensore affidabile e occasionalmente buon tiratore sia sugli scarichi che dal palleggio. Uno specialista insomma. VOTO: 6,5

33# Achille Polonara - Il Pupazzo, come si fa chiamare nei social, è tutto fuorché una marionetta. Durezza mentale, fascio di nervi, grinta da vendere: aveva visto giusto nove anni fa Claudio Coldebella quando lo scelse per una Treviso che mai vi fu. Pure lui dimostra che aver lasciato la sicurezza del posto garantito in patria gli ha svoltato la carriera. VOTO: 7,5

54# Alessandro Pajola - "Pajola chi?", ci si domandava un anno fa. In dodici mesi il virtussino è cambiato radicalmente, a forza di prendere gomitate e schiaffoni in allenamento da Markovic e Teodosic è diventato un cagnaccio rognoso in difesa ed un motorino inesauribile per la regia. Volendo potrebbe pure segnare ma spesso preferisce orchestrare l'azione. Limiti? La testa, deve restare sempre umile e ricordarsi cosa ha fatto per arrivare dov'è. VOTO: 8,5

Meo Sacchetti - Due anni fa sembrava con le valigie in mano, pronto a far posto a Walter De Raffaele. Poi ha convinto la FIP a dargli fiducia ripagando con gli interessi dimostrando di credere nelle nuove generazioni e di non dover convincere i vecchi draghi a giocare per forza. Con la Nazionale sulla carta più debole di sempre ha sgambettato la Serbia a casa propria ed è giunto a 51 secondi da una semifinale olimpica. Il tutto dopo una stagione pessima a livello di club con l'equivoco di una Fortitudo mal costruita. Poteva cedere il testimone a Djordevic invece continuerà ancora: la base per costruire ancora c'è, da Bortolani ad Alviti (sperando che a Milano non si bruci) e magari recuperando anche Gaspardo e Abass, sacrificati lungo il cammino. VOTO: 7,5

domenica 13 giugno 2021

Vincere (e salutare) da signori

Salvo cataclismi, domani o al più tardi martedì la Virtus Bologna comunicherà al trio Djordjevic-Bjedov-Markovic che i piani per il futuro del club non comprendono la loro presenza. Quindi arrivederci e grazie. Nei giorni successivi la dirigenza bianconera deciderà cosa fare col residuo anno di contratto di Milos Teodosic, campionissimo preso nel 2019 (con annesso beneficio per i conti) con l'obiettivo di raggiungere l'Eurolega. No EL quindi no Milos, verrebbe da dire anticipando le mosse dei fidati uomini di patron Zanetti, sempre che il bilancio possa permettersi una risoluzione anticipata pesantuccia e che il nuovo coach sia d'accordo in questa operazione d'uscita. Si chiuderà così un corposo e travagliato capitolo della storia recente della Vu Nere, con scelte nette e finanche drastiche ma che non riesco a condividere.

Conobbi di persona Sale Djordjevic nella primavera del 2011. Era disoccupato. Da quando Milano gli aveva dato il benservito nel 2007 preferendogli il macedone Markovski, si era dovuto accontentare di fungere da commentatore per Eurosport senza ricevere proposte. Il rilancio della sua carriera in panchina ripartì da quella Treviso in cui era arrivato da spalla tecnica televisiva per le Final Four di Eurocup: chiamato dal suo vecchio amico e compagno di squadra all'Olimpia Claudio Coldebella, Djordjevic ebbe la classica seconda opportunità in cui poté sperimentare (seppur con i limiti dovuti ad un club in annunciato disarmo) le proprie idee tattiche. La compresenza di due o più play in quintetto, l'intercambiabilità delle ali, il centro rapido ed atipico che colpisce in avvicinamento, la difesa arcigna e mixata: tutti gli elementi del gioco che oggi si trovano alla Virtus campione d'Italia, Sale li aveva provati già allora. 

L'esperienza a Bologna costituisce l'apice di una carriera ancora relativamente giovane. Limitandosi alla sola esperienza di club e senza contare la rivitalizzata Nazionale serba, Djordjevic ha alle spalle circa otto stagioni, computando anche subentri ed esoneri in corsa. In così poco tempo ha saputo imporre il proprio gioco e le proprie idee. A costo di sembrare sprovveduto, arrogante o antipatico, per chi lo conosce poco o nulla, ma facendosi amare da praticamente tutti i giocatori che ha seguito. Specialmente i giovani. Se Gino Cuccarolo per qualche anno è stato un giocatore di basket e non un fenomeno da baraccone, lo deve a Sale. Se Andrea De Nicolao ha potuto ritagliarsi ruoli importanti in Serie A, lo deve a Sale. Se Alessandro Gentile è approdato a Milano (salvando con i soldi incassati una Benetton destinata all'epoca alla bancarotta sotto Natale), lo deve a Sale. E se oggi Alessandro Pajola è passato da bruttissimo anatroccolo preso di mira da tutti a segreto della vittoria virtussina, sapete a chi vanno i ringraziamenti.

Ogni professione però presenta dei profili di scarsa riconoscenza. Si spiega così l'idea della Virtus di chiudere il capitolo Djordjevic. La decisione in realtà è stata presa a dicembre quando l'esonero-lampo rientrò in virtù tanto di una palese cazzata comunicativa quanto di una totale assenza di alternative credibili. Dopo il flop della semifinale contro Kazan, in cui evidentemente i fautori ed autori della cacciata con retromarcia decembrina non aveva colto in toto il problema causato dall'infortunio accusato da Markovic alla caviglia, l'insopprimibile desiderio di liberarsi di un coach di personalità e non abituato a chinare il capo e dunque scomodo è tornato in auge. Lo scudetto poteva essere l'unica ancora di salvezza ma se è vero - ed è vero, purtroppo - che i contatti tra Vu Nere e l'entourage di Sergio Scariolo sono proseguiti nei playoff, significa che gli attestati di fiducia a tempo erano unicamente di facciata e l'unico aspetto reale era il conto alla rovescia verso la fine della stagione.

Sale Djordjevic se ne andrà dalla Virtus? Altamente probabile. E con lui saluterà anche Goran Bjedov, il silenzioso ma preziosissimo vice che otto anni fa di questi tempi vinceva un campionato di Promozione con una banda di ragazzini minorenni costituendo la base dell'attuale Treviso Basket. Scontato il divorzio tra Bologna e Stefan Markovic, pretoriano del coach, capofila della protesta di dicembre, nume tutelare di Pajola. Se sarà davvero Sergio Manolo Scariolo il prossimo head coach della Vu Nera, pur non dubitando del curriculum e del palmares del tecnico ispano-bresciano, temo che la Segafredo non compirà affatto l'auspicato passo in avanti. E non solo perché senza il duo serbo-croato in panchina parte dello zoccolo duro di questi due anni si sfalderà. Per capire il rischio che correrebbe la Virtus affidandosi a Scariolo è sufficiente osservare Ettore Messina e la sua parabola milanese. Affidarsi ad un allenatore che da parecchi anni non guida club europei ma è reduce da un robusto assistentato oltre Atlantico significa dover concedere una fase medio-lunga di assestamento a regole differenti di mercato, conduzione dello spogliatoio, programmazione del lavoro, diversa filosofia quotidiana. Milano questo rischio l'ha corso e nel primo anno di Messina ha balbettato, per poi rilanciarsi e ritornare in auge salvo incappare in errori mastodontici di gestione delle risorse psicofisiche. Ma Milano aveva e ha tuttora il vantaggio della certezza di una Eurolega per contratto, inattaccabile, da cui non può essere esclusa se non per impronosticabili motivi. La Virtus questa granitica certezza non ce l'ha e al massimo proverà ad elemosinare una wild card complice la paradossale implosione del Khimki. Affidare in toto club e team costruiti pazientemente in due anni ad un tecnico diverso e peraltro disabituato da sette stagioni alla vita in una società sportiva europea è un azzardo assoluto che può terminare in due modi: smentendo le fosche previsioni con successi tutti da immaginare o con un esonero dopo pochi mesi e progetto che stenta a decollare.

Dal mio piccolo, ringrazio Djordjevic per avermi fatto vedere un basket bello ed efficace, per le sue dichiarazioni mai banali, per l'abbraccio in Fiera a novembre 2019, per aver accettato una richiesta di 5 minuti di intervista al telefono nonostante fosse comprensibilmente distrutto dalla fatica. Sale è e resta un signore, con tutti i pregi ed i difetti che gli si possono riconoscere. Che vada a Kazan in Eurolega, che accetti di ricostruire il Partizan nuovamente sull'orlo del baratro, che (provocazione) chieda di fare il senior assistant in CSI o che rimanga fermo in attesa di un'altra sfida, non cambierà la mia opinione di lui e della qualità del suo lavoro. Come sempre, i fatti parlano e confermano.

venerdì 11 giugno 2021

Ci vuole Sale (ed un pizzico di pepe)

La più dolce delle rivincite. Forse il più bello degli scudetti, per la Virtus Bologna ma non solo. La definizione chiara, limpida, cristallina dell'importanza dell'allenatore nella costruzione tanto tattica quanto mentale di un collettivo. La vittoria della Segafredo con un percorso netto invidiabile nei playoff è merito di una coppia di allenatori che appena sei mesi fa veniva cacciata con un editto più che bulgaro, una defenestrazione pessima nei tempi, nei modi, nella gestione anche della comunicazione. Per Goran Bjedov ma ancor di più per Sale Djordjevic è lo scudetto della rivincita contro chi li riteneva inadatti a ridare un'identità vincente ad una (ex) nobile decaduta, valorizzando al contempo gli italiani e soprattutto uno dei migliori prodotti del vivaio.

Si può dire di tutto di Djordjevic. Che sia vulcanico, a volte collerico, perfezionista, indubbiamente plavo come avrebbe detto il povero Aldo Giordani. Bjedov è un po' la sua coscienza critica, il contenitore, l'uomo dei dettagli, il tattico, lo specialista del lavoro individuale. In due hanno riportato la Virtus prima a vincere qualcosa di abbastanza importante - ricordate la BCL del 2019? - poi a guadagnare una posizione di rispetto in campionato, infine a raccogliere uno scudetto che alla metà bianconera di Bologna mancava dal 2001, l'anno dello Slam. Il tutto, grazie anche ad un ragazzino che fino ad un anno fa pareva lo sparring partner buttato in campo giusto per fare un po' di casino e che da allora è diventato pedina imprescindibile: Alessandro Pajola.

Uno scudetto molto plavo. Djordjevic, Bjedov, Teodosic, Markovic: un poker che ha trasmesso inusitata tranquillità e modalità vincente anche a Pajola oltre che ad un collettivo che a dicembre pareva la brutta copia della stagione precedente più i gemelli scarsi di Abass ed Adams. Senza citare Belinelli, il casus belli dell'esonero più farsesco mai visto: il suo infortunio, non comunicato a dovere alla proprietà, aveva condotto al licenziamento poi revocato per assenza di alternative. I mugugni si erano ripresentati ad aprile con la sconfitta in semifinale di Eurocup contro Kazan, un ko dopo una stagione da imbattuta in Coppa che pareva destinare la Virtus al fallimento sportivo. Nessuno però si ricorda che nell'occasione alle Vu Nere era zoppa a causa delle imperfette condizioni di Stefan Markovic che in carriera non è quasi mai stato un realizzatore ma un eccellente equilibratore tra direzione del gioco offensivo e strategia della difesa. Markovic era reduce dal Covid e giocò quella serie contro l'Unics in evidente debito di ossigeno. In finale scudetto la preparazione fisica è stata ben diversa ed i risultati si sono visti.

Vince con merito la Virtus. Perde, seppur salvando parzialmente la faccia con una gara4 equilibrata per 37 minuti, Milano. Che era teoricamente più lunga, più forte, più talentuosa e sicuramente più costosa della rivale felsinea. Ma che era anche stata costruita con troppi errori alla fine capitali: assemblata con il chiaro obiettivo dell'Eurolega, l'Olimpia è arrivata a fine stagione mentalmente e fisicamente ai minimi termini a causa della spremitura costante dei suoi veterani stranieri, dopo aver relegato la pattuglia dei panda italiani a comparse o a materiale da tappezzeria. Mentre Pajola giocava acquisendo esperienza, Moretti finiva in tribuna; mentre Ricci recuperava sicurezza, Abass ritrovava sé stesso, Alibegovic mostrava lampi di classe e di forza, Cinciarini finiva in naftalina, Biligha faceva la comparsa, Wojciechowski (prelevato a peso d'oro da Biella in A2...) spariva dai radar e Moraschini doveva in continuazione adattarsi a giocare poco e spesso fuori ruolo. Questa è la più grande sconfitta di Ettore Messina, che non ha saputo comprendere l'importanza di un gruppo realmente profondo e con responsabilità condivise tra campionato e Coppa: il fatto che il coach veneto sia incappato nella peggior finale scudetto della sua carriera, la prima persa in assoluto, dice molto dell'annata contradditoria di Milano.

Se siete amanti della cabala, la tradizione in fondo si è ripetuta. Milano negli anni dispari non vince: stavolta almeno è arrivata in finale, anche se le premesse per l'atto conclusivo erano tutt'altro che pessimistiche; nel 2015, 2017 e 2019 era rimasta a guardare dopo essersi fermata in semifinale. Magra consolazione. Così come è assurdo definire buona o addirittura ottima un'annata che è sì coincisa col ritorno dopo una vita alle Final Four di Eurolega ma che si è chiusa con in bacheca la pallidissima Supercoppa giocata senza concorrenti veri e la Coppa Italia in cui le rivali erano non pronte oppure troppo indebolite o palesemente inadeguate.

Discorso diverso per la Virtus, che nei playoff ha tremato solo in gara3 a Treviso. Si può dire che lo scudetto bianconero sia nato lì, dopo il -15 all'intervallo, la rimonta costruita in difesa, l'overtime giocato coltello tra i denti. Lì è emerso il vero spirito plavo della squadra - ed onore pure alla De' Longhi, ad un passo dall'impresa. Ed ora sarà curioso capire che ne sarà di quello spirito, giacché se Teodosic vanta ancora un anno di accordo a cifre molto importanti (eufemismo), la triade Djordjevic-Bjedov-Markovic è in scadenza. Fino ad un mese fa parevano tutti e tre con le valigie in mano: i due tecnici per il naturale epilogo dopo l'esonero fantasma invernale, il play per aver fomentato all'epoca la protesta e per un rendimento inferiore all'annata precedente. Il tempo dei ripensamenti invece è già iniziato, complici le poco esaltanti alternative sul mercato - Trinchieri ha rifiutato, Pianigiani non entusiasma nessuno, Scariolo andrà altrove. Che il trio resti o meno a Bologna, Djordjevic ha già dimostrato il proprio valore: può scegliere se andarsene da campione, a braccia alzate ed anche con un moto d'orgoglio, oppure sfruttare il successo per dettare le condizioni per un proseguimento del rapporto. Comunque lui ha vinto, su tutti i fronti. E scusate se vi par poco.

lunedì 17 maggio 2021

Tutto Veramente Bello: un anno di TVB in pagelle

La stagione 2020/21 di TVB si chiude con un overtime, un supplementare in cui emerge la voglia della squadra, un dato emotivo che si scontra con i limiti oggettivi a cominciare dalle rotazioni ridotte per proseguire con le taglie fisiche dei singoli protagonisti e con la disabitudine di molti di questi a giocare un certo tipo di parte. A prescindere da tutto ciò, è stata un'annata indimenticabile per molte ragioni ed è giusto e logico che, nella migliore delle tradizioni, prima del "rompete le righe", si faccia un bilancio. O meglio, un pagellone di quanto avvenuto da settembre sino a poche ore fa.

DAVID LOGAN: un anno fa c'era incertezza riguardo al suo rapporto con Treviso Basket, un matrimonio che pareva essere naufragato dopo l'ormai famosa fuga dell'8 marzo e ricucito un po' per la volontà dello staff di non privarsi di un simile veterano ed un po' in forza di un contratto pesante fatto valere dal suo ingombrante procuratore. A 38 anni compiuti subito dopo Natale, un girone d'andata da califfo con tanto di prova mostruosa in casa della Fortitudo; poi una seconda fase con qualche passaggio a vuoto, complici gli acciacchi e le difese avversarie che lo hanno preso di mira puntando sul fisico. Chiusura della stagione in grande spolvero, seppur con il consueto rendimento affatto costante. Di "last dance" non ne vuole sentir parlare, smentendo di fatto le parole pronunciate nel 2020, quindi continuerà ancora per almeno una stagione. Con chi? Il suo contratto scade tra poche settimane e chiama parecchi soldi, possibile che TVB gli proponga una estensione con ruoli e compensi assai rivisti. Intanto... VOTO 8

DEWAYNE RUSSELL: play tascabile se ce n'è uno. Anche lui autore di una stagione a più volti, prima come costruttore principale di gioco, poi come finalizzatore. Nei playoff ha preso coscienza delle proprie capacità offensive salendo di livello peraltro nel confronto con dei signori difensori. Certo, la ridotta taglia fisica induce a delle scelte ponderate in tema di mercato e la sua firma la scorsa estate per la De' Longhi preludeva all'intenzione di costruire una squadra da corsa estrema il cui obiettivo sarebbe sempre stato segnare un canestro in più degli avversari. Comunque vada a finire (c'è un'opzione per un rinnovo annuale) Treviso resterà nel suo cuore per la nascita ed il nome della sua bimba. VOTO 7,5

TYLER CHEESE: oggetto misterioso, spacciato per guardia tuttofare di 196 centimetri (chi è che ha barato sull'altezza, a proposito?), in realtà frutto acerbissimo della pallacanestro americana, inutile persino per un campionato di basso profilo come quello finlandese in cui viene spedito dopo il taglio a Treviso. Unico pregio: costava pochissimo. Ma per quei soldi non era allora più conveniente tenersi Lollo Uglietti? Nessuno ha sentito la sua mancanza, nemmeno gli juniores con cui ha fatto a pugni in allenamento. VOTO: 2

GIOVANNI VILDERA: altro affare a basso costo, la doppia-doppia piazzata alla prima uscita di Supercoppa a Mestre aveva illuso parecchia gente. E probabilmente anche lui, che ha impiegato qualche mese a prendere le misure ad un torneo che non conosceva e che per lungo tempo l'ha visto primatista indiscusso di falli offensivi sciocchi ed inutili. Con la laurea in tasca si è trasformato: prima il partitone con la Fortitudo, poi un crescendo rossiniano di prestazioni solide sino all'ottima gara3 con la Virtus. Contratto in scadenza, teoricamente sacrificabile in un'ottica anche europea ma non sono esclusi ripensamenti. D'altronde di lunghi italiani decenti con poche pretese economiche non è che ci sia tutta questa abbondanza. VOTO: 6,5

VITTORIO BARTOLI: il mezzolungo toscano ha visto pochissimo il campo, blindato in una rotazione a cinque nei due ruoli interni. Da capire cosa possa fare e dare in futuro. Intanto VOTO NG

MATTEO IMBRO': pure per lui, un campionato in crescendo. Forse voleva togliersi la ruggine accumulata la scorsa stagione, aperta con un infortunio ed accompagnata da un ulteriore malanno, problemi che lo avevano condizionato. Stavolta c'è stato dall'inizio ed a tratti è stato ottimo, specie giostrando da guardia che ormai è il suo ruolo a questi livelli. Esperienza, furbizia, tiro ed anche carisma hanno sopperito alla grande la cronica mancanza di esplosività delle gambe. In scadenza, c'è chi tra la concorrenza l'avrebbe già messo nel mirino. Resterà? VOTO: 7,5

LORENZO PICCIN: secondo anno nel giro della prima squadra e primi, veri minutaggi per questo ragazzino della provincia che ha mostrato orgoglio e carattere a dispetto di mezzi fisici affatto eccelsi e di oggettivi limiti tecnici. Il cuore non si discute, la tenacia nemmeno. Da sesto esterno, quando è stato chiamato in causa non è stato affatto disprezzabile. VOTO: 6,5

MATTEO CHILLO: terza stagione a Treviso e rendimento in continua ascesa. Era un buon backup per Tessitori all'inizio, poi un quarto lungo utile per tutte le stagioni, ora è diventato un affidabile 4-5 che apre l'area col tiro, mette palla a terra, difende anche sui cambi e gioca senza paura. Difetti? Uno, davvero pesante: commette troppi falli sciocchi, specie sui tiri da 3, un dettaglio su cui dovrà lavorare. A 28 anni non ancora compiuti non si può certo lamentarsi di un elemento del genere. C'è un'opzione per uscire dal biennale firmato l'anno scorso a favore della società, sarebbe folle rinunciare ad uno dei migliori elementi per rapporto qualità/prezzo. VOTO: 7

CHRISTIAN MEKOWULU: sorprendente. Ok, ad Orzinuovi collezionava doppie-doppie, ma si parla comunque di un club che l'anno scorso languiva in fondo alla classifica di A2. Il nigeriano invece ha mezzi non solo per la Serie A ma anche per misurarsi in una competizione europea. A patto, s'intende, di migliorare la gestione dei falli, suo tradizionale tallone d'Achille. Resterà negli annali la sua prestazione in gara2 di playoff contro la Virtus in cui ha ridicolizzato Gamble stoppando qualunque pallone si avvicinasse al raggio d'azione delle sue braccia. Altro elemento da blindare per il futuro, levando ogni clausola di uscita. VOTO: 8

MICHAL SOKOLOWSKI: il vero punto di svolta della stagione è stato l'arrivo del polacco. L'ex Legia Varsavia ha lasciato una squadra che lo teneva in parcheggio non pagandolo per esplorare per la prima volta un campionato al di fuori della propria nazione. Impatto ottimo, con capacità di giocare nei due ruoli di ala, di fungere da play aggiunto, di difendere su quasi ogni tipo di avversario e di fare spesso la cosa giusta al momento giusto. Nel finale ha accusato un calo, colpa degli sforzi precedenti e di un fastidio al tendine. Da tempo si lavora alla sua conferma, una partecipazione alla BCL da parte di Treviso Basket aiuterebbe in tal senso. VOTO: 8,5

JEFFREY CARROLL: bomber di A2. O da A2? In realtà l'equivoco si chiarisce pensando alle caratteristiche psicologiche del giocatore americano, abituato a gestire buona parte dei possessi e ritrovatosi a fungere da secondo violino (poi da terzo, dopo da rincalzo) e precipitato nel buco nero dell'involuzione mentale. In una squadra senza Logan forse avrebbe funzionato, in una De' Longhi con un catalizzatore come il Professore ed un pacchetto lunghi da servire in movimento ha fatto da contorno finché non si è trovato a chi sbolognarlo. Tornato in A2, a Biella ha ripreso a giocare come sa e come preferisce. Auguri a lui ed all'Edilnol nei playout. VOTO: 4,5 (ma non è del tutto colpa sua)

NICOLA AKELE: grande investimento della passata campagna acquisti, ha giustificato solo a tratti la scelta fatta dalla società. Ondivago, a volte determinante (a Cremona soprattutto), ad oggi non ha tiro né sicurezza per fare il 3 e non possiede la solidità in post per essere un 4. Playoff da debuttante ma da dimenticare: peggiore in campo nei primi due atti, in gara3 il coach gli preferisce Chillo per tutti i 20 minuti finali (incluso l'overtime). Ha un altro anno di accordo, senza clausole d'uscita. Che meriti un investimento scommettendo su una maturazione o da sacrificare per un pariruolo americano più solido? VOTO: 6

TRENT LOCKETT: chiamato a sostituire Carroll nelle rotazioni, è arrivato nella Marca dopo un anno di sostanziale stop post operatorio. In netto ritardo di condizione, ha impiegato due mesi per ritrovare buona parte dello smalto dei giorni migliori salvo essere condizionato nel finale da un problema ad un piede. A dispetto di ciò, buon difensore sulla palla e sull'uomo, ha consentito una crescita del rendimento di squadra - il ciclo delle 6 vittorie è iniziato con lui - e non è affatto dispiaciuto nel contesto globale. In scadenza, non resterà. VOTO: 6,5

MAX MENETTI: per un intero girone ha visto la sua squadra offrire la peggiore difesa possibile, incassando però qualche bella vittoria grazie all'innesto di Sokolowski ed alla vena offensiva di Logan. C'è anche la sua mano nella costruzione di un girone di ritorno da applausi, con quelle sei vittorie consecutive che hanno portato una formazione costruita per ottenere la salvezza e nulla più ad entrare con quattro turni d'anticipo nei playoff. Ha altri due anni di contratto a Treviso, tempo sufficiente per completare un ciclo e plasmare un nucleo solido che possa fungere da base anche per il futuro. Ha difetti conosciuti (scaramantico, preferisce i veterani che giocano anche fuori dal playbook) ma ha dimostrato con i fatti di saper il fatto proprio. VOTO: 8

SOCIETA': vale a dire Consorzio e dirigenza, le due anime imprescindibili di TVB. In un'annata balorda, senza pubblico, con budget tagliato del 30%, poteva sbandare e nessuno avrebbe avuto granché da ridire. In fondo le premesse non erano rosee ed anzi alcune scelte estive condite da dichiarazioni un po' sopra le righe avevano già scatenato i primi mugugni. La scelta senza senso di Cheese e altre firme a basso costo potevano dar adito a sospetti, fugati dai due innesti in corsa - ricordando che solo Trento e Cremona non hanno fatto ricorso al mercato di riparazione - e da una confermata solidità del modello gestionale. Il sesto posto conclusivo con il posto virtuale in BCL è un premio per quanto fatto ed al contempo un invito ad osare ancora di più. VOTO: 8

giovedì 13 maggio 2021

Come costruire un giocatore

Se un giorno Alessandro Pajola da Ancona, classe 1999, diventerà un giocatore d'altissimo livello dovrà ringraziare una sola persona. Non la mamma che l'ha fatto, né chi lo convinse a 15 anni a mollare la coperta di Linus della Stamura per vestire il bianconero - per quanto la scuola di Giordano Consolini sia ancora oggi una delle più valide in Italia per i giovani. Quella persona è Aleksandar Djordjevic

Siete stupiti? Io no. Perché Sasha sarà pure vulcanico, collerico, poco tattico e molto viscerale, ma sa trasmettere motivazioni e sa lavorare con i giovani. Volete qualche esempio? Prendete quel playmaker che oggi è a Venezia, Andrea De Nicolao. Sapete da dove è partito? Da Vigodarzere, provincia di Padova, passando per le giovanili Benetton e poi un primo assaggio in prima squadra ai tempi di Frank Vitucci. Spedito in prestito in B1 (avessi detto almeno l'allora Legadue: no, proprio B1), a rivolerlo in Serie A fu Djordjevic nonostante il ragazzo all'epoca fosse scettico visto che davanti a lui nel ruolo avrebbe avuto due mostri sacri come Bulleri e Becirovic oltre che un Nazionale israeliano come Mekel. Invece la sua carriera partì da lì per arrivare alle affermazioni successive. Perché con i giovani serve prima di tutto il coraggio di farli giocare, fregandosene a volte del risultato di squadra.

Pensate sia pazzo? Eppure le stesse parole le ha usate Claudio Coldebella, il metro di paragone massimo cui riferirsi abitualmente nei discorsi che riguardano Pajola. Lui, che fu il primo vero play atipico moderno, oggi conferma da dirigente (ed anche ex allenatore) quel che dovrebbe essere chiaro ai più ed invece risulta ostico o incomprensibile a moltissimi: i giovani devono giocare. Non allenarsi e guardare le partite, come ha fatto Moretti per un anno buttando via una stagione preziosissima della propria carriera. Pajola, che rispetto a Moretti ha un anno e mezzo di meno, da tre stagioni gioca: prima poco, poi un po' di più, sempre prendendosi delle sonore badilate in faccia tanto metaforiche quanto letterali; però quelle badilate l'hanno aiutato a crescere, a capire quali abilità sfruttare, come nascondere i punti deboli, come esaltare le proprie capacità e le doti fisiche. Oggi a ventuno anni Alessandro Pajola gioca da protagonista in stagione regolare, in Eurocup, nei playoff, vedendosela con veterani del ruolo e americani, in una rotazione interna che prevede due serbi dal carattere pepato e dal pedigree professionale alquanto corposo per non dire ingombrante. Moretti nel frattempo si allena per poi non andare nemmeno nei 12 in una gara1 contro la Trento meno razionale e più scarsa (nel senso tavcariano del termine) degli ultimi cinque anni.

Per compiere un determinato percorso però servono due presupposti. Il primo appartiene al giocatore ed è la sua voglia di emergere. Deve essere una vera fame, come quella che caratterizzava i serbi, i croati, gli sloveni che si ammazzavano di fatica in palestra per cercare di entrare in uno dei pochi club ammessi nel campionato nazionale più competitivo d'Europa, quello della vecchia Jugoslavia. Se il giovane ha già questa dote innata, è a buon punto. Il secondo elemento è un allenatore che creda in lui, che lo sviluppi, che gli conceda il tempo di sbagliare (sì, sbagliare), ma in campo, in partita, a costo di farsi massacrare da un americano che magari crede ancora che di qua dall'Atlantico ci sia il Terzo Mondo cestistico. Una sana razione domenicale di rospi da ingoiare, più le lavate di capo dell'allenatore, più le sedute supplementari per lavorare sul proprio gioco, più intelligenza applicata alla pallacanestro più la sopra menzionata fame... et voilà, eccovi servito il vostro Alessandro Pajola.

Prendete invece un talentino niente male, figlio di cotanto padre. Mandatelo in America, perché il mito USA del college è duro a morire pure da queste parti. Circondatelo della giusta aura mediatica, fatene un fenomeno da comunicare prima che un giocatore vero. Dotatelo del giusto procuratore che sappia valorizzarne non certo le doti tecniche, atletiche o intellettive (che non mancano, sia chiaro, mica parliamo di un imbranato!), quanto piuttosto l'assai presunta capacità d'esprimere una pallacanestro immediatamente d'impatto ottenendo in cambio un contratto a cifre molto alte. Affidatelo ad una squadra sin troppo profonda e che ha l'obiettivo di vincere tutto subito, senza badare a spese ma senza tempo per sviluppare qualcuno e che con questa politica negli ultimi anni ha bruciato un'intera generazione di giovani (peraltro quasi tutti nello stesso ruolo, bella casualità!). Ecco, ora avrete il vostro Davide Moretti attuale, un 23enne che raramente si schioda dalla panchina e che spesso si accomoda direttamente in tribuna. Ruolo che ci si aspetterebbe fosse cucito, in un basket accompagnato da regole protezionistiche che neanche il WWF, su misura per il sedicenne, magari figlio del dirigente, che arriva dalle juniores come ultimissimo di rotazione, giusto per avere il dodicesimo quando serve causa infortuni altrui e che abitualmente porta borse e borracce, gonfia i palloni, asciuga il parquet dal sudore e che, se buttato in campo in garbage time e magari segna pure un punto o più, al primo allenamento deve portare un maxi vassoio di paste e subire qualunque scherzo o battuta dai veterani. Non certo per chi, secondo alcuni, a breve dovrebbe trovare posto in azzurro scalzando la precedente generazione dei Cinciarini e dei Vitali.

Ora nelle vesti di Pilato che ha visto Pajola stampare al debutto personale nei playoff di Serie A un +22 di plus/minus in faccia a Russell e Imbrò ed un Moretti nemmeno convocato da Messina per una comoda Milano-Trento in cui alla fine ha giocato persino Wojciechowski ripescato dall'A2 di Biella, vi chiedo: volete Gesù o Barabba? Preferite il talentuoso che spreca il suo tempo invece di giocare oppure quello brutto, sporco (a difendere) e rognoso che si fa insultare in inglese, serbocroato, italiano e forse pure in bolognese stretto ma che alla fine, stringi stringi, ottiene una svolta alla propria carriera? Io una risposta ce l'ho ma la domanda non è rivolta a me.

mercoledì 5 maggio 2021

Aridatece Germano Mosconi!

Titolo provocatorio per questo post che vuol essere una riflessione non tanto sul malcostume della blasfemia ma sulle motivazioni assurde adottate da certi dirigenti per accompagnare decisioni discutibili, nella tempistica così come nella sostanza. Che il compianto Germano Mosconi bestemmiasse a più riprese lo sanno tutti, persino i bambini, ma questo coloritissimo particolare non inficiava affatto l'ottima qualità del suo lavoro giornalistico - chiedete pure ai suoi ex colleghi per referenze. Sarebbe stato quantomeno pittoresco che l'editore della televisione per cui lavorava gli avesse sospeso incarico e stipendio a causa dell'abitudine del nostro durante le registrazioni di abbandonarsi ad imprecazioni blasfeme ogni volta che incappasse in un lapsus linguae oppure di fronte a scherzi un po' pesanti organizzati da qualche collega burlone. Occorre sempre distinguere la forma dalla sostanza.

La sospensione sancita da Stefano Sardara (da me ribattezzato in tempi non sospetti "il cardinale" per l'abilità politica, nickname che oggi torna attuale seppur con altre funzioni) ai danni di Gianmarco Pozzecco è la summa del ridicolo. Chiariamoci: qualunque proprietario di un club è libero di istituire un codice etico interno che stabilisca dei limiti comportamentali, ma neutralizzare per dieci giorni il proprio capo-allenatore guarda caso ad un mese dalla fine della stagione, dopo che giusto un anno fa si era consumato uno strappo ricucito a fatica e dopo continue incomprensioni (eufemismo) è un atteggiamento sospetto. Specialmente se la motivazione a monte è quella di imprecazioni e bestemmie profferite tra dicembre ed aprile, vale a dire ad un mese di distanza dall'ultima occasione. Qualcuno ha già descritto Sardara come il classico sepolcro imbiancato, un appellativo utilizzato in passato per definire l'ipocrisia di chi si nasconde dietro facciate di perbenismo per giustificare condotte sospette: non credo che si sia molto lontani dalla verità.

Quel che mi fa sorridere è che Sardara in un'intervista pubblicata oggi abbia affermato che lo stop sia giunto dopo un consulto con gli avvocati del suo club. Nessuno di questi ha ricordato al presidente-padrone il caso di Fabrizio Frates? Per chi se lo fosse dimenticato, quattordici anni fa la derelitta Fortitudo in cura-Martinelli utilizzò la stessa scusante, quella delle bestemmie (in allenamento però, non in partita, dunque in un ambito addirittura più intimo e meno strombazzato) per sollevare dall'incarico l'architetto milanese. Fu una scusante puerile, una foglia di fico per coprire la decisione di esonerare un allenatore che non aveva garantito i risultati sperati - la Effe passò in pochi mesi dalle finali scudetto a lottare in retrovia - mentre il disboscatore arrivato da Roseto continuava a tagliare rami secchi. Come andò a finire? Frates non si arrese, fece ricorso ed ebbe ragione in tutti i gradi di giudizio. Non certo perché i magistrati fossero tutti dei bestemmiatori indefessi o perché simpatizzassero per la causa Mosconiana: semplicemente non esiste un licenziamento per giusta causa solo perché al dipendente scappano un paio di parole incongrue dovute alla rabbia.

Chissà se in queste ore Frates farà una telefonata di solidarietà a Pozzecco. O se lo stesso Pozz, personaggio unico nel suo genere e per questo tollerato anche nelle note esagerazioni, approfitterà dell'occasione per riflettere sull'accaduto. A lui darei volentieri un consiglio spassionato: fregarsene, andare ugualmente in palestra sfidando l'editto cardinalizio e capire fino a che punto Sardara voglia spingere la questione in chiave ridicola pur di non ammettere che l'idillio sia tramontato del tutto e che la ricerca di un nuovo coach per la prossima stagione sia partita. Lo stesso Sardara tra l'altro dovrebbe forse iniziare a fare un po' di autocritica, giacché l'aver finora promosso la separazione con sin troppi allenatori anche di successo (dice niente il caso Meo Sacchetti?) è sintomo di un problema profondo chiamato managerialità. Se finora il presidente della Dinamo si è confermato ottimo politicante nonché perfetto organizzatore societario, la gestione sportiva è bene che venga lasciata ad un direttore sportivo pienamente indipendente. Altrimenti dopo i mal di pancia con Esposito, le liti con Sacchetti ed ora le bestemmie con Pozzecco, ci si potrà attendere di tutto. E chiudendo con una battuta relativa ai soci turchi in quel di Torino, siamo sicuri che Sardara non abbia inserito una clausola vincolante anti-bestemmia ed anti-fumo con gli anatolici, i cui peccatucci sono entrati nella vulgata popolare da secoli?

martedì 20 aprile 2021

Novità? No, idee vecchie e confuse

Sta destando scalpore, a mio avviso ingiustificato, la vicenda che ruota attorno al progetto di una Superlega europea di calcio che, stando alle dichiarazioni dei diretti interessati, provocherebbe una decisa svolta in senso affaristico del mondo del pallone. Stracciamento di vesti tra gli esclusi, presunto sentimento di scandalo tra i politici di professione che intervengono solo quando ravvisano un possibile bacino elettorale da intercettare, esternazioni lapidarie ed ovviamente deluse nonché foriere di propositi di vendetta da chi vede fuggire dal pollaio qualche gallina dalle uova (placcate) d'oro. Perché in fondo, diciamocelo, è solo una questione di business, di soldi, di interessi privati, di sponsor che sposano un progetto alternativo, di suddivisione dei profitti, di bilanci da rivedere. Non è tutto oro quel che luccica e lo si vedrà a breve, ma per il momento lo spettacolo di cabaret mediatico è tale da indurre fior di colleghi giornalisti ad aprire giornali e telegiornali con quella che credono sia la grande novità, la notizia del momento.

Fosse ancora vivo, Enzo Lefebre si farebbe una gran risata e poi probabilmente chiamerebbe un avvocato per farsi riconoscere parte del merito dell'idea. Perché cari signori del pallone, spiacente ma siete arrivati in ritardo dove la pallacanestro aveva già tentato oltre vent'anni fa. Tentato sì, non fallito (per fortuna) ma nemmeno ottenuto il successo immaginato. Ma procediamo per gradi. Quello che oggi la pedata europea vuol imbastire è nient'altro che una riproposizione, a distanza di oltre quattro lustri (mica bagigi!), della guerra FIBA-ULEB.

Riassunto delle puntate precedenti, a beneficio di lettori disattenti, smemorati, disinformati o eccessivamente calciocentrici. Nel 1991 a Roma le maggiori leghe cestistiche d'Europa fondano ULEB, un organismo privato di rappresentanza inizialmente senza poteri ma che, seguendo le idee dell'avvocato Porelli e di chi lo ha seguito nell'avventura, dovrebbe fungere da strumento di pressione nei confronti di FIBA Europe perché i club chiamati a disputare le competizioni continentali possano finalmente beneficiare di un riconoscimento politico, organizzativo ed economico. Tempo sette anni e ULEB inizia a stilare un progetto reale, quello di una competizione organizzata direttamente: Eurolega, l'erede della vecchia Coppa Campioni, il cui marchio mai è stato depositato dalla FIBA - e bravi miopi! Nel 2000, stufi di una situazione cristallizzata, i club di ULEB annunciano la nascita della loro Eurolega (depositando il brand, tiè!), basata su presupposti di business e di stabilità delle presenze a scapito del merito sportivo semplice. I padri della rivoluzione sono due italiani, Gherardini e Lefebre, ed i catalani Portela e Bertomeu, questi ultimi una coppia di avvocati che negli anni '80 avevano fatto un bel viaggio a Bologna per studiare i meccanismi di quella Legabasket che all'epoca pareva il miglior modello organizzativo di sport in Europa. Sembra passato un secolo, vero?

Di fronte allo scossone, FIBA reagì come logica suggerisce, cioè con minacce, blandizie, trattative sottotraccia ed il varo di una competizione alternativa. In soldoni la Federazione si ritrovò privata in un colpo solo delle spagnole, delle italiane di punta, delle ex jugoslave, vale a dire il top level: per mantenere una parvenza di serietà FIBA contattò subito le big turche, Maccabi Tel Aviv (favorevole) e Panathinaikos (incerto) promettendo una valanga di soldi perché tutte restassero sotto l'ombrello protettivo di Ginevra rinunciando ad emigrare verso ULEB. Poi si passò alle squalifiche: improponibile quelle degli atleti che avrebbero minato la credibilità internazionale del movimento, si passò a quella degli arbitri cui fu ordinato di scegliere, o con FIBA mantenendo o guadagnando la qualifica, oppure banditi a vita. Infine, i soldi, vero motore di tutto: un accordo con un'agenzia svizzera fece balenare per la prima volta la possibilità di ricevere soldi veri, e pure tanti, in uno sport spesso bistrattato al di fuori delle proprie oasi dorate. Per una stagione, la 2000/'01, Eurolega e Suproleague si fecero la guerra a distanza, con due campioni d'Europa diversi e nessun accordo in vista.

Tutto cambiò nella tarda primavera del 2001 col fallimento della summenzionata agenzia elvetica. Senza soldi non si dice messa (cit.), quindi di fronte ad una fuga di massa con relativo sputtanamento globale FIBA fu costretta a miti consigli, a trattative ed a sottoscrivere un accordo di tregua. Il torneo di riconciliazione di Lubiana dell'autunno successivo - invitate le quattro finaliste (due per competizione) più i padroni di casa ed il Cibona, con quest'ultimo vincitore grazie ad un giovanissimo Zoran Planinic in veste di MVP - sancì la ritrovata pace. Ma con una scadenza, ovvero a 15 anni da allora. Difatti nel 2015 gli attriti sono riemersi anche perché nel frattempo FIBA si era riorganizzata, aveva trovato nuove formule e soprattutto grazie alla questione olimpica era riuscita per la prima volta a trovare uno strumento di pressione vagamente efficace. Da allora abbiamo quattro competizioni continentali: 

  1. Eurolega: club ristrettissimo ad inviti, organizzato da ECA (Euroleague Commercial Assets) che dal 2009 ha rilevato la titolarità da ULEB promuovendo un approccio ancor più business oriented e di proprietà delle grandi società. In pratica un circolo per pochi in cui l'obiettivo è massimizzare la possibilità di profitto, pur mantenendo aperta una finestra verso ingressi occasionali dai campionati di riferimento, ed in cui il primo interesse è rivolto a creare un prodotto spendibile in termini di marketing mediatico, televisivo e prettamente commerciale.
  2. EuroCup: già ULEB Cup, altra competizione sotto egida ECA, un filino meno rigida rispetto alla sorella maggiore - le licenze qui sono massimo triennali e non decennali - che però offre la possibilità di interscambio col piano di sopra. Possibilità di business ovviamente inferiori ma pur sempre presenti.
  3. FIBA Basketball Champions League: a dispetto del nome mutuato dal calcio, terza Coppa per livello tecnico ed anche per risorse in campo. Accesso principalmente tramite merito sportivo, con notevoli eccezioni tramite contratti di convenzione tra organizzatori e singole realtà. Nata con la prospettiva di strappare club di riferimento a Eurolega, ha riposto i sogni nel cassetto e si accontenta di guerreggiare un po' con EuroCup.
  4. FIBA Europe Cup: il peggio, il Terzo Mondo delle competizioni continentali. Se per alcuni campionati nazionali rappresenta una notevole opportunità, per quelli più strutturati o ambiziosi è il contentino da dare a chi vorrebbe ma non può. 
Il risultato di questa frammentazione è una sperequazione evidente di risorse e possibilità che porta i club più giovani o meno strutturati a domandarsi se sia davvero conveniente da un punto di viste economico dover aumentare il budget stagionale dal 20 al 35% in funzione europea o se non sia preferibile rintanarsi nell'orticello di casa (leggi, campionato nazionale). 

Nessuno dei sistemi prima esposti è perfetto, anzi. Per dirne una, la recente riunione carbonara di sette club di Eurolega pronti a sfiduciare il presidentissimo Bertomeu è la dimostrazione che tutto è migliorabile ed anche i sistemi apparentemente più solidi hanno delle falle. Tornando al pallone, ho udito colleghi affatto preparati parlare di "sistema NBA" senza evidentemente sapere cosa significhi: perché la NBA non è solo un torneo chiuso in cui non esistono promozioni, retrocessioni, coppe nazionali, vivai. Il mondo con l'effige di Jerry West è prima di tutto una macchina da denaro gestita col pugno di ferro e regole standard, lontane dal desiderio europeo di piccola indipendenza che poi si traduce nel classico "faccio quel che mi pare". NBA organizza tutto, dalla A alla Z, prendendosi oneri oltre che onori ed obbligando tutti a seguire lo stesso regolamento: immaginate un'Europa in cui viene detto al top club di turno che non può ingaggiare altri giocatori gonfiando il monte salari se non paga una salata penale da redistribuire ai suoi diretti concorrenti. Oppure veterani che devono scegliere tra occasioni da titolo al minimo sindacale o un ultimo scampolo di carriera con la solita maglia, ricoperti di soldi ma destinati a restare a margine del successo. Oppure il merchandising amministrato da un solo, unico ente che tratta con i fornitori a nome di tutti e vigila sul relativo mercato garantendo introiti ma anche bacchettando chi bara sulle regole. Difficile, vero?

Tanti anni fa la rivista "Superbasket" criticò aspramente lo sportismo, il fenomeno dello sport in funzione del modello spettacolo-affari che va in voga negli States. Ma in fondo si tratta di scegliere le proprie priorità, tra la difesa dei valori decoubertiniani (che col varo del professionismo dovrebbero già essere stati seppelliti, ma tant'è) e la necessità di chi investe decine di milioni di euro a botta di trovare un tornaconto che non sia di carattere politico, fiscale o, nei casi più antipatici, di ripulitura del denaro. Scegliete, Gesù o Barabba? Il merito sportivo senza troppe lamentele sullo scarso guadagno o il business fino a sé stesso, anche a costo di mandare a donnine di facili costumi i presupposti dello sport europeo? E non chiedete una terza busta o una via di mezzo perché non può esistere.

mercoledì 17 marzo 2021

F... come Follia

Prendo a prestito il titolo di un pezzo del vecchio Superbasket di quasi 20 anni fa (giugno 2002 per l'esattezza) per riassumere le ultime, vorticose, assurde, insensate, pazze 72 ore della Fortitudo Bologna, la società più imprevedibile che ci sia. Sfido chiunque ad annoiarsi di fronte ad un frullatore di emozioni del genere, anche se ultimamente è capace soltanto di riservare uno stupore negativo o palesi arrabbiature ai propri tifosi. Come dicevo, "F... come Follia": all'epoca il settimanale diretto dal collega Franco Montorro utilizzò questo titolo per analizzare l'assurdità tanto di caricare con significati eccessivi i playoff di una Effe affatto irresistibile e reduce da varie bastonate quanto di effettuare da parte della sua tifoseria una invasione di campo davanti alle telecamere Rai per impedire che una delle tante rivali potesse festeggiare meritatamente, sul parquet, la vittoria di uno scudetto. 

Stavolta la follia è qualcosa di composito ed apparentemente irrazionale ma che pare stretto parente di quanto avvenne - tanto per restare nel medesimo arco temporale, vale a dire i primi mesi del 2002 - sull'opposta sponda del Reno, quando in 24 ore la Virtus esonerò e richiamò Ettore Messina in quella che sarebbe stata l'avvisaglia della tempesta prossima ad abbattersi sull'Arcoveggio. Come all'epoca il casus belli riguardava una partita malamente persa in trasferta, anche per la Fortitudo il motivo scatenante (almeno stando alle dichiarazioni pubbliche) sarebbe quello del ko di domenica sera nel posticipo al Palaverde che è costato alla Lavoropiù il ritorno nella zona infernale della classifica, quella del gruppone a cinque per evitare la retrocessione.

Alzi la mano chi pensava che la De' Longhi, priva di Logan, potesse spuntarla contro la Fortitudo, specie dopo aver incassato un break tra secondo e terzo quarto per il +10 ospite al 27°. Sembrava tutto pronto per una trionfale cavalcata felsinea verso una vittoria risolutiva, forse addirittura una rivincita nei confronti della sconfitta dell'andata. Invece tra l'antisportivo di Aradori, Menetti che passa a zona, Dalmonte che si intestardisce con Baldasso in regia, il dottor Vildera che maramaldeggia a centro area, ecco servito il terzo referto giallo consecutivo. Ma tutto sommato perdere fa parte del gioco, sarebbe sciocco e puerile pensare di poter vincere sempre o quando si vorrebbe, no? E fin qui, nulla di eccezionalmente notabile, a parte le polemicucce da asilo su cori, sciarpe e sponsor che fanno il tifo.

Passato il weekend e con una partita delicatissima da preparare in appena cinque giorni, lo scontro-salvezza con Reggio Emilia da giocare nel medesimo impianto utilizzato in stagione dalle due squadre, chiunque si aspetterebbe un minimo di tranquillità per consentire allo staff tecnico di lavorare nelle migliori condizioni. L'unica giornata relativamente pacifica è lunedì, in cui comunque ronzano voci di insoddisfazione, di tirate d'orecchi mirate. Martedì, forse pensando di stemperare l'atmosfera con qualcosa di positivo o addirittura allegro, la Fortitudo presenta una iniziativa benefica con le maglie realizzate per conto del main sponsor in prospettiva del derby di fine mese. Bisogna dire che forse qualcuno ha equivocato il significato del famoso motto "Che se ne parli male purché se ne parli": dopo i pois del 2016/17, l'amaranto della Coppa Italia 2018, lo sponsor fantasma Metano Nord, le simil-double da allenamento della scorsa stagione, le righine di quest'anno, ecco la sfumatura rosa-fucsia su un melange azzurro-blu che fa sorridere (eufemismo) mezza Italia cestistica e scatena nuovi comprensibili sfottò. 

Tutto sommato, se ci si fermasse alle maglie da stracittadina non ci sarebbe nemmeno granché da lamentarsi. Il problema è che nella stessa occasione Christian Pavani, presidente del club, dice qualcosa che travalica la semplice presentazione della tenuta da gioco. Nello specifico Pavani ammette le difficoltà finanziarie, dice che dopo un anno solare di palasport chiusi al pubblico la società Fortitudo inizia a faticare, che i soci dovranno fare delle valutazioni, che a giugno si potrebbe anche pensare di passare la mano in assenza di novità importanti (leggi riaperture degli impianti o interventi strutturali), invoca addirittura lo stop al campionato. Parole che non sono nuove, d'altronde più di una realtà all'interno di LBA nei mesi scorsi ha denunciato la difficoltà a far quadrare i conti senza l'apporto del botteghino e con riduzioni degli importi da sponsorizzazione. Ma quando Pesaro o Varese lamentavano gli ammanchi o quando la Virtus Roma spariva seppellita da promesse non mantenute o quando prima ancora, in estate, Pistoia si autoretrocedeva perché impossibilitata a sopportare il peso economico di una annata professionistica con troppe incertezze, la Fortitudo non apriva bocca. Anzi, ingaggiava a suon di assegni pesanti fiori di giocatori e ne confermava altri dall'ingaggio affatto leggero. E pure ad annata in corso, quando si è trattato di intervenire per cambiare l'allenatore e rivoluzionare mezza squadra, la Fortitudo ha chiamato i procuratori senza lamentare apparentemente problemi di liquidità, né immediata né in prospettiva. Fu tattica o follia?

Torniamo al presente. Dopo la sconfitta a Villorba, le maglie multicolor e il grido d'allarme, oggi giunge l'ennesima novità. Circola infatti la voce di una lettera di Pavani ai giocatori in cui il massimo dirigente biancoblu si dichiarerebbe arrabbiato, deluso e tradito al punto da aver deciso il blocco temporaneo degli stipendi. Una misura cui non ricorre nessuno perché, con le norme in vigore, è palesemente draconiana al punto che un qualsiasi giocatore potrebbe rivolgersi agli organi competenti per avere giustizia ottenendola in tempi ragionevoli. Per questo motivo di solito i dirigenti preferiscono piuttosto sfruttare lo strumento delle multe cui l'atleta non si oppone perché presente nel contratto firmato e dunque già avvisato. Il blocco degli stipendi invece è un altro discorso e non lascia presagire nulla di buono, tant'è vero che appena la notizia si sparge partono le congetture. E se fosse una mossa non per spronare la squadra ma per risparmiare una mensilità? E se fosse un modo per celare l'effettivo stato di salute del club, fino a pochi giorni fa mai messo in dubbio grazie ai continui ingaggi in corso d'opera? E se la Fortitudo avesse davvero problemi a breve-medio termine, per quale motivo appena la scorsa settimana si sarebbe parlato del nuovo centro sportivo a Borgo Panigale come progetto per garantire un futuro alla società stessa?

Troppi dubbi, troppe domande. Troppe situazioni che lasciano disorientati al punto da domandarsi se quella Fortitudo pazza ed incosciente di cui "Superbasket" chiedeva l'archiviazione quasi vent'anni fa, suscitando lo sdegno di buona parte dei tifosi, non sia mai morta col fallimento ma sia sopravvissuta cambiando pelle esterna, mutando codice FIP ed assetto societario ma mantenendo al proprio interno il difetto di non riuscire a gestire una vera pianificazione preferendole la follia, euforica o distruttiva. Magari domani Pavani smentirà tutto, affermerà che non è accaduto nulla, che la società è solidissima e che i soci continueranno anche l'anno prossimo tornando al PalaDozza, anche a porte chiuse nella peggiore delle ipotesi. Forse non ci sarà nessun ritardo negli stipendi, neanche una multa, appena giusto un paio di urlacci a fine allenamento. Chissà. Certo però che il giochino inaugurato su Twitter qualche sera fa da Adrian Banks, guardia americana che la scorsa estate lasciò Brindisi attratta dall'ingaggio principesco in Effe, ora suona assai beffardo: alla sua sfida "Dimmi che giochi a basket in Europa senza dirmi che giochi a basket in Europa", i primi follower che hanno interagito hanno risposto citando il noto malcostume dei ritardi nella corresponsione degli emolumenti. Casualità, preveggenza o semplice boutade?