Aveva ragione Tony Pisapia, il neomelodico interpretato da Toni Servillo in quel meraviglioso film che è "L'Uomo In Più", opera prima di Paolo Sorrentino. Non c'è altro commento possibile leggendo la notizia battuta dai siti di oltre oceano: Kobe Bryant non c'è più. Morto. Schiantatosi con l'elicottero, quel velivolo che amava usare per spostarsi dalla villa allo Staples all'epoca dei Lakers e che ora usava per accompagnare la figlia secondogenita Gianna Maria, 13 anni, agli allenamenti ed alle partite. Anche Gianna Maria non c'è più, morta con suo padre nello stesso incidente. La vita è proprio 'na strunzata.
Conservo alcuni ricordi particolari di Kobe. Uno su tutti, la sua presenza a Milano anni fa per un evento pubblicitario legato ad una iniziativa sportiva promossa da uno dei suoi sponsor dell'epoca. Kobe era ancora un ragazzo, aveva vent'anni, eppure era già un personaggio. Era approdato nell'NBA senza passare dal college, direttamente dal liceo, convincendo i Lakers a scommettere su di lui al punto da imbastire una trade rischiosa: spedire un uomo franchigia e certezza assoluta nel pitturato come Vlade Divac nell'inferno di Charlotte per avere la 13esima chiamata assoluta al Draft 1996 e selezionare quel ragazzo che parlava un inglese scolastico con un lieve accento italiano. Lui, afroamericano figlio di afroamericani ma cresciuto in Europa, lontano dai ghetti delle metropoli e già bullizzato per questo dai suoi coetanei e dagli altri afro.
La nostra lingua gli piaceva, non perdeva occasione per sfoggiarla. E la parlava dannatamente bene, intervallando le frasi con i suoi sorrisi. Ma in campo il sorriso spariva, lo riservava solo agli avversari dopo averli demoliti a suon di percussioni o di tiri da fuori. Non aveva un carattere facile, Kobe Bryant. Lo sapevano bene gli altri esterni del dorato pianeta NBA e lo avevano capito anche compagni di squadra e staff tecnico. La convivenza con Shaquille O'Neal fu problematica ben oltre le semplici questioni tecniche, risolte rispolverando l'attacco triangolo di Tex Winter. Erano due galli in un pollaio il cui rapporto esplosivo venne tenuto a bada dalle vittorie. Ma quando qualcosa iniziò ad andar storto, riemersero i vecchi rancori, lo spogliatoio esplose, la coppia più forte di sempre si separò. E Bryant dovette dimostrare di non essere solo un magnifico solista.
Non era un uomo semplice, Kobe Bryant. Non dimenticò mai le difficoltà ad ambientarsi negli States, compresa la diffidenza in famiglia per aver voluto sposare una donna bianca, Vanessa Laine. Ed i problemi aumentarono quando una ragazza diciannovenne che lavorava come cameriera in un hotel del Colorado lo accusò di stupro: quel giorno d'estate del 2003 crollò un pezzo dell'innocenza dell'America che aveva idolatrato Bryant come esempio di afroamericano capace di uscire dagli schemi sociali imponendosi all'attenzione quale campione pulito e rispettato. Finì nel tritacarne mediatico ed a poco valse la dimostrazione della volontà della presunta vittima di spillare soldi e notorietà: Bryant per tutti divenne uno stupratore. La moglie ebbe un aborto spontaneo per lo stress, la sua carriera per un paio di stagioni fu disastrata e gli sponsor gli voltarono le spalle.
Eppure, da uomo complesso e con mille contraddizioni e diversi vizi, Kobe Bryant seppe riscattarsi. Iniziò in modo semplice, sul campo. Prima calzando scarpe diverse in reazione alla decisione di adidas di scaricarlo - sarebbe arrivata Nike a coprirlo d'oro poco dopo. Poi infilzando i malcapitati Raptors con 81 punti in una semplice serata di routine. Arrivò anche il soprannome ideale, da spendere sui mercati e nei social: Bryant era il Black Mamba, il serpente sinuoso e letale, da non stuzzicare. E pazienza se Brian Scalabrine aveva prontamente deciso di irriderlo con la trovata del White Mamba.
Bryant avrebbe vinto ancora. Con i Lakers, riportati alla vittoria approfittando della trade favorevole con Memphis per avere un nuovo compagno solido in post basso, ovvero Pau Gasol. E con la Nazionale, riportata all'oro olimpico dopo la figuraccia di Atene 2004 e cancellando il mezzo pasticcio di Sydney 2000 oltre alla vergogna assoluta dei Mondiali di Indianapolis 2002. Ma era iniziata nel frattempo la parabola discendente fatta di infortuni, di piccole amarezze, di occasioni sprecate. Una, paradossale nella sua involontaria comicità, fu quella della presunta offerta della Virtus Bologna per giocare qualche gara in Italia durante il lockout del 2011. La proposta di Claudio Sabatini, picaresca nei modi e nei metodi, aveva comunque uno scopo: sfruttare il potenziale pubblicitario di Kobe. Ed anche se non vedemmo mai il Mamba con la Vu Nera sul petto, bastarono quelle poche dichiarazioni del vulcanico patron felsineo per smuovere il sonnacchioso mondo italico dello sport non-calcistico rivitalizzando l'attenzione per qualche giorno in favore della pallacanestro.
Kobe, al di là di scappatelle e debolezze, era anche un family man. Era un uomo innamorato. Di sua moglie, delle figlie, a volte delle giovani di etnia indoeuropea. E del basket cui rivolse una struggente lettera che era ed è una confessione a cuore aperto. Quando annunciò il ritiro si regalò una stagione di passerelle in ogni arena, fornendo nuova linfa alla NBA nel periodo di transizione dal compianto David Stern al nuovo corso targato Silver. Ed è quasi paradossale che la sua tragica scomparsa abbia seguito in linea temporale il suo scivolamento al quarto posto nella classifica marcatori all-time della NBA da parte di Lebron James di cui non è mai stato un vero estimatore ma che ha sempre rispettato come atleta. Uomo franchigia come pochi - solo Dirk Nowitzki ha saputo fare altrettanto, ma vincendo meno - ha incarnato mode, simboli, ideali, contraddizioni, vizi, virtù, sogni, incubi, potenza, debolezza, marketing e solitudine. Era una parte irrinunciabile dello sport system. Citando Rachel (Sean Young) di "Blade Runner", lui non faceva parte del business ma era il business. Averlo perso in maniera così traumatica ci rende tutti più poveri. Più smarriti. Più soli. E ci accorgiamo, svegliandoci improvvisamente, che davvero "la vita è 'na strunzata".