domenica 26 gennaio 2020

La vita è 'na strunzata

Aveva ragione Tony Pisapia, il neomelodico interpretato da Toni Servillo in quel meraviglioso film che è "L'Uomo In Più", opera prima di Paolo Sorrentino. Non c'è altro commento possibile leggendo la notizia battuta dai siti di oltre oceano: Kobe Bryant non c'è più. Morto. Schiantatosi con l'elicottero, quel velivolo che amava usare per spostarsi dalla villa allo Staples all'epoca dei Lakers e che ora usava per accompagnare la figlia secondogenita Gianna Maria, 13 anni, agli allenamenti ed alle partite. Anche Gianna Maria non c'è più, morta con suo padre nello stesso incidente. La vita è proprio 'na strunzata.



Conservo alcuni ricordi particolari di Kobe. Uno su tutti, la sua presenza a Milano anni fa per un evento pubblicitario legato ad una iniziativa sportiva promossa da uno dei suoi sponsor dell'epoca. Kobe era ancora un ragazzo, aveva vent'anni, eppure era già un personaggio. Era approdato nell'NBA senza passare dal college, direttamente dal liceo, convincendo i Lakers a scommettere su di lui al punto da imbastire una trade rischiosa: spedire un uomo franchigia e certezza assoluta nel pitturato come Vlade Divac nell'inferno di Charlotte per avere la 13esima chiamata assoluta al Draft 1996 e selezionare quel ragazzo che parlava un inglese scolastico con un lieve accento italiano. Lui, afroamericano figlio di afroamericani ma cresciuto in Europa, lontano dai ghetti delle metropoli e già bullizzato per questo dai suoi coetanei e dagli altri afro.

La nostra lingua gli piaceva, non perdeva occasione per sfoggiarla. E la parlava dannatamente bene, intervallando le frasi con i suoi sorrisi. Ma in campo il sorriso spariva, lo riservava solo agli avversari dopo averli demoliti a suon di percussioni o di tiri da fuori. Non aveva un carattere facile, Kobe Bryant. Lo sapevano bene gli altri esterni del dorato pianeta NBA e lo avevano capito anche compagni di squadra e staff tecnico. La convivenza con Shaquille O'Neal fu problematica ben oltre le semplici questioni tecniche, risolte rispolverando l'attacco triangolo di Tex Winter. Erano due galli in un pollaio il cui rapporto esplosivo venne tenuto a bada dalle vittorie. Ma quando qualcosa iniziò ad andar storto, riemersero i vecchi rancori, lo spogliatoio esplose, la coppia più forte di sempre si separò. E Bryant dovette dimostrare di non essere solo un magnifico solista.

Non era un uomo semplice, Kobe Bryant. Non dimenticò mai le difficoltà ad ambientarsi negli States, compresa la diffidenza in famiglia per aver voluto sposare una donna bianca, Vanessa Laine. Ed i problemi aumentarono quando una ragazza diciannovenne che lavorava come cameriera in un hotel del Colorado lo accusò di stupro: quel giorno d'estate del 2003 crollò un pezzo dell'innocenza dell'America che aveva idolatrato Bryant come esempio di afroamericano capace di uscire dagli schemi sociali imponendosi all'attenzione quale campione pulito e rispettato. Finì nel tritacarne mediatico ed a poco valse la dimostrazione della volontà della presunta vittima di spillare soldi e notorietà: Bryant per tutti divenne uno stupratore. La moglie ebbe un aborto spontaneo per lo stress, la sua carriera per un paio di stagioni fu disastrata e gli sponsor gli voltarono le spalle.

Eppure, da uomo complesso e con mille contraddizioni e diversi vizi, Kobe Bryant seppe riscattarsi. Iniziò in modo semplice, sul campo. Prima calzando scarpe diverse in reazione alla decisione di adidas di scaricarlo - sarebbe arrivata Nike a coprirlo d'oro poco dopo. Poi infilzando i malcapitati Raptors con 81 punti in una semplice serata di routine. Arrivò anche il soprannome ideale, da spendere sui mercati e nei social: Bryant era il Black Mamba, il serpente sinuoso e letale, da non stuzzicare. E pazienza se Brian Scalabrine aveva prontamente deciso di irriderlo con la trovata del White Mamba.

Bryant avrebbe vinto ancora. Con i Lakers, riportati alla vittoria approfittando della trade favorevole con Memphis per avere un nuovo compagno solido in post basso, ovvero Pau Gasol. E con la Nazionale, riportata all'oro olimpico dopo la figuraccia di Atene 2004 e cancellando il mezzo pasticcio di Sydney 2000 oltre alla vergogna assoluta dei Mondiali di Indianapolis 2002. Ma era iniziata nel frattempo la parabola discendente fatta di infortuni, di piccole amarezze, di occasioni sprecate. Una, paradossale nella sua involontaria comicità, fu quella della presunta offerta della Virtus Bologna per giocare qualche gara in Italia durante il lockout del 2011. La proposta di Claudio Sabatini, picaresca nei modi e nei metodi, aveva comunque uno scopo: sfruttare il potenziale pubblicitario di Kobe. Ed anche se non vedemmo mai il Mamba con la Vu Nera sul petto, bastarono quelle poche dichiarazioni del vulcanico patron felsineo per smuovere il sonnacchioso mondo italico dello sport non-calcistico rivitalizzando l'attenzione per qualche giorno in favore della pallacanestro.

Kobe, al di là di scappatelle e debolezze, era anche un family man. Era un uomo innamorato. Di sua moglie, delle figlie, a volte delle giovani di etnia indoeuropea. E del basket cui rivolse una struggente lettera che era ed è una confessione a cuore aperto. Quando annunciò il ritiro si regalò una stagione di passerelle in ogni arena, fornendo nuova linfa alla NBA nel periodo di transizione dal compianto David Stern al nuovo corso targato Silver. Ed è quasi paradossale che la sua tragica scomparsa abbia seguito in linea temporale il suo scivolamento al quarto posto nella classifica marcatori all-time della NBA da parte di Lebron James di cui non è mai stato un vero estimatore ma che ha sempre rispettato come atleta. Uomo franchigia come pochi - solo Dirk Nowitzki ha saputo fare altrettanto, ma vincendo meno - ha incarnato mode, simboli, ideali, contraddizioni, vizi, virtù, sogni, incubi, potenza, debolezza, marketing e solitudine. Era una parte irrinunciabile dello sport system. Citando Rachel (Sean Young) di "Blade Runner", lui non faceva parte del business ma era il business. Averlo perso in maniera così traumatica ci rende tutti più poveri. Più smarriti. Più soli. E ci accorgiamo, svegliandoci improvvisamente, che davvero "la vita è 'na strunzata".




sabato 18 gennaio 2020

Il mattone di Laurie Blake

C'è un mattone scagliato in alto nel cielo. Un mattone che prima o poi dovrà rispettare la legge di gravità e piombare nuovamente a terra. O in testa a qualcuno. Se nell'acclamata serie tv della HBO "Watchmen" che spero ardentemente abbiate visto - è andata in onda su Sky Atlantic da ottobre a dicembre scorsi in contemporanea con gli Stati Uniti - il laterizio racconta con una curiosa perifrasi le vicende umane di alcuni protagonisti inseriti in una greve allegoria da Laurie Blake, ebbene un mattone c'è anche nella storia recente di TVB. Ed anche in questo caso è un pericolo incombente, sottovalutato, dimenticato, taciuto. Si chiama fallimento sportivo e potrebbe piombare sul cranio di qualcuno prima dell'estate.



Qui però non c'è un dio imperscrutabile che giudica, né tre eroi che vengono scaraventati all'inferno perché troppo timidi e teneri o slegati dall'umanità oppure eccessivamente cinici e cerebrali. No. Ma il mattone c'è e finora è rimasto in fase ascendente. Prima o poi dovrà cadere. Intanto però alcuni giudizi sono stati emessi, tra mercato estivo e stagione regolare. All'inferno, o meglio fuori da TVB, sono finiti in tanti e qualcuno sta per seguirli.
Il talento e le capacità non bastano a salvarsi dalle scelte. "Cosa sai fare? Cosa puoi darmi?": queste sono le domande cui non si può sfuggire.
Il primo è stato Eric Lombardi. Immaginiamo le sue risposte: "So giocare in due ruoli di ala, conosco già la Serie A, sono migliorato al tiro da fuori e do una bella mano in difesa sull'uomo e sulla palla oltre che a rimbalzo". Bene... però hai avuto la sfortuna di romperti un tendine negli scorsi playoff quindi non ti si può attendere come quando arrivasti qui, reduce dall'infortunio al piatto tibiale, ti pare? SNAP! e giù all'inferno.
Poi Dominez Burnett. Era sicuro di farcela, aveva un contratto garantito grazie alla promozione ai playoff dopo un'annata eccellente. "So fare un po' di tutto, sono una guardia mancina ma posso anche portare palla, condurre la transizione, difendere forte, giocare 3, inventarmi agente speciale difensivo". Bene... però il tuo contratto per la serie superiore è troppo oneroso, me ne accorgo solo ora, e mi servono soldi per firmare un play titolare straniero, visto che tutti quelli che ho contattato finora hanno respinto le mie avances perché offro due bagigi come compenso. Quindi mi dispiace 'Nez ma... SNAP! e giù all'inferno
Al posto di Burnett, Turner. Non il casinaro del film ma poco ci mancava, visto il mix micidiale di genio (poco) e sregolatezza di Elston. "Ho talento offensivo da vendere, posso crearmi occasioni offensive dal nulla, gioco 2 e 3 senza problemi, conosco l'Italia, sono stati in A e A2 facendo sempre bei bottini quanto a punti". Bene... ma... Non sei un cestista, sei un trippone! Sei arrivato con una settimana di ritardo e completamente fuori forma. Costerai poco ma che me ne faccio di te? "Veramente mica penso di restare qui a lungo e comunque se mi aspettate posso dimagr..." SNAP! e giù all'inferno.
Il prossimo della lista è Luca Severini. Manca poco al suo turno. "Non è neanche un anno che sono qui... non rompo le scatole, mi alleno duro, gioco quando serve e se occorre anche da ala piccola, non proprio il mio ruolo. Se mi buttano in campo a babbo morto o con mezza partita da giocare, non fiato e faccio lo stesso quello che posso". Bene... però il campo finora l'hai visto quasi solo in emergenza, cinque lunghi sono troppi, Parks è solo un 4 e soprattutto voglio alleggerire il monte stipendi per avere il margine per un possibile ulteriore cambio. Lo capisci? "Sì, tanto ho le valigie pronte già da un po'" Lo schiocco di dita arriverà a breve.

Queste le scelte sacrificali. Nel mezzo, qualche altra decisione poco comprensibile. Come la gestione di un Alviti molto meno testa calda rispetto ad un anno fa e decisamente umile ed al servizio della squadra: un mistero la sua collocazione di decimo in rotazione, senza giochi pensati per lui e chiamato spesso a far numero in campo, salvo ovviamente infortuni o serate storte altrui. O quella di Tessitori, fuori forma fisicamente e ben poco concentrato mentalmente, eppure mandato in campo a far danni anche in serate in cui si capisce al volo che sarebbe meglio farlo accomodare in borghese a lato panchina. Oppure quella di sostituire l'impresentabile Turner di cui sopra con un esordiente nel basket europeo, Charles Cooke III, allontanato da una squadra tedesca per "incompatibilità" già ai primi di agosto cioè dopo dieci giorni di raduno, dandogli peraltro un numero di maglia non esattamente incoraggiante ed anzi utile a definirlo in tutto e per tutto (il ruolo in campo è lo stesso) quale erede ideale di Quenton DeCosey.

Mentre le dita schioccano o meno, il mattone si prepara a scendere. Un sibilo lontano avverte dell'evento. Dove cadrà? Fracasserà qualche cranio? Rovinerà qualche situazione? Lo vedremo nelle prossime settimane. Forse già domenica a Pistoia in un dentro-o-fuori da vietare ai deboli di cuore. E forse pure a qualcun altro.


Nota a margine: Quis custodiet ipsos custodes? (Giovenale, VI Satira)