martedì 20 aprile 2021

Novità? No, idee vecchie e confuse

Sta destando scalpore, a mio avviso ingiustificato, la vicenda che ruota attorno al progetto di una Superlega europea di calcio che, stando alle dichiarazioni dei diretti interessati, provocherebbe una decisa svolta in senso affaristico del mondo del pallone. Stracciamento di vesti tra gli esclusi, presunto sentimento di scandalo tra i politici di professione che intervengono solo quando ravvisano un possibile bacino elettorale da intercettare, esternazioni lapidarie ed ovviamente deluse nonché foriere di propositi di vendetta da chi vede fuggire dal pollaio qualche gallina dalle uova (placcate) d'oro. Perché in fondo, diciamocelo, è solo una questione di business, di soldi, di interessi privati, di sponsor che sposano un progetto alternativo, di suddivisione dei profitti, di bilanci da rivedere. Non è tutto oro quel che luccica e lo si vedrà a breve, ma per il momento lo spettacolo di cabaret mediatico è tale da indurre fior di colleghi giornalisti ad aprire giornali e telegiornali con quella che credono sia la grande novità, la notizia del momento.

Fosse ancora vivo, Enzo Lefebre si farebbe una gran risata e poi probabilmente chiamerebbe un avvocato per farsi riconoscere parte del merito dell'idea. Perché cari signori del pallone, spiacente ma siete arrivati in ritardo dove la pallacanestro aveva già tentato oltre vent'anni fa. Tentato sì, non fallito (per fortuna) ma nemmeno ottenuto il successo immaginato. Ma procediamo per gradi. Quello che oggi la pedata europea vuol imbastire è nient'altro che una riproposizione, a distanza di oltre quattro lustri (mica bagigi!), della guerra FIBA-ULEB.

Riassunto delle puntate precedenti, a beneficio di lettori disattenti, smemorati, disinformati o eccessivamente calciocentrici. Nel 1991 a Roma le maggiori leghe cestistiche d'Europa fondano ULEB, un organismo privato di rappresentanza inizialmente senza poteri ma che, seguendo le idee dell'avvocato Porelli e di chi lo ha seguito nell'avventura, dovrebbe fungere da strumento di pressione nei confronti di FIBA Europe perché i club chiamati a disputare le competizioni continentali possano finalmente beneficiare di un riconoscimento politico, organizzativo ed economico. Tempo sette anni e ULEB inizia a stilare un progetto reale, quello di una competizione organizzata direttamente: Eurolega, l'erede della vecchia Coppa Campioni, il cui marchio mai è stato depositato dalla FIBA - e bravi miopi! Nel 2000, stufi di una situazione cristallizzata, i club di ULEB annunciano la nascita della loro Eurolega (depositando il brand, tiè!), basata su presupposti di business e di stabilità delle presenze a scapito del merito sportivo semplice. I padri della rivoluzione sono due italiani, Gherardini e Lefebre, ed i catalani Portela e Bertomeu, questi ultimi una coppia di avvocati che negli anni '80 avevano fatto un bel viaggio a Bologna per studiare i meccanismi di quella Legabasket che all'epoca pareva il miglior modello organizzativo di sport in Europa. Sembra passato un secolo, vero?

Di fronte allo scossone, FIBA reagì come logica suggerisce, cioè con minacce, blandizie, trattative sottotraccia ed il varo di una competizione alternativa. In soldoni la Federazione si ritrovò privata in un colpo solo delle spagnole, delle italiane di punta, delle ex jugoslave, vale a dire il top level: per mantenere una parvenza di serietà FIBA contattò subito le big turche, Maccabi Tel Aviv (favorevole) e Panathinaikos (incerto) promettendo una valanga di soldi perché tutte restassero sotto l'ombrello protettivo di Ginevra rinunciando ad emigrare verso ULEB. Poi si passò alle squalifiche: improponibile quelle degli atleti che avrebbero minato la credibilità internazionale del movimento, si passò a quella degli arbitri cui fu ordinato di scegliere, o con FIBA mantenendo o guadagnando la qualifica, oppure banditi a vita. Infine, i soldi, vero motore di tutto: un accordo con un'agenzia svizzera fece balenare per la prima volta la possibilità di ricevere soldi veri, e pure tanti, in uno sport spesso bistrattato al di fuori delle proprie oasi dorate. Per una stagione, la 2000/'01, Eurolega e Suproleague si fecero la guerra a distanza, con due campioni d'Europa diversi e nessun accordo in vista.

Tutto cambiò nella tarda primavera del 2001 col fallimento della summenzionata agenzia elvetica. Senza soldi non si dice messa (cit.), quindi di fronte ad una fuga di massa con relativo sputtanamento globale FIBA fu costretta a miti consigli, a trattative ed a sottoscrivere un accordo di tregua. Il torneo di riconciliazione di Lubiana dell'autunno successivo - invitate le quattro finaliste (due per competizione) più i padroni di casa ed il Cibona, con quest'ultimo vincitore grazie ad un giovanissimo Zoran Planinic in veste di MVP - sancì la ritrovata pace. Ma con una scadenza, ovvero a 15 anni da allora. Difatti nel 2015 gli attriti sono riemersi anche perché nel frattempo FIBA si era riorganizzata, aveva trovato nuove formule e soprattutto grazie alla questione olimpica era riuscita per la prima volta a trovare uno strumento di pressione vagamente efficace. Da allora abbiamo quattro competizioni continentali: 

  1. Eurolega: club ristrettissimo ad inviti, organizzato da ECA (Euroleague Commercial Assets) che dal 2009 ha rilevato la titolarità da ULEB promuovendo un approccio ancor più business oriented e di proprietà delle grandi società. In pratica un circolo per pochi in cui l'obiettivo è massimizzare la possibilità di profitto, pur mantenendo aperta una finestra verso ingressi occasionali dai campionati di riferimento, ed in cui il primo interesse è rivolto a creare un prodotto spendibile in termini di marketing mediatico, televisivo e prettamente commerciale.
  2. EuroCup: già ULEB Cup, altra competizione sotto egida ECA, un filino meno rigida rispetto alla sorella maggiore - le licenze qui sono massimo triennali e non decennali - che però offre la possibilità di interscambio col piano di sopra. Possibilità di business ovviamente inferiori ma pur sempre presenti.
  3. FIBA Basketball Champions League: a dispetto del nome mutuato dal calcio, terza Coppa per livello tecnico ed anche per risorse in campo. Accesso principalmente tramite merito sportivo, con notevoli eccezioni tramite contratti di convenzione tra organizzatori e singole realtà. Nata con la prospettiva di strappare club di riferimento a Eurolega, ha riposto i sogni nel cassetto e si accontenta di guerreggiare un po' con EuroCup.
  4. FIBA Europe Cup: il peggio, il Terzo Mondo delle competizioni continentali. Se per alcuni campionati nazionali rappresenta una notevole opportunità, per quelli più strutturati o ambiziosi è il contentino da dare a chi vorrebbe ma non può. 
Il risultato di questa frammentazione è una sperequazione evidente di risorse e possibilità che porta i club più giovani o meno strutturati a domandarsi se sia davvero conveniente da un punto di viste economico dover aumentare il budget stagionale dal 20 al 35% in funzione europea o se non sia preferibile rintanarsi nell'orticello di casa (leggi, campionato nazionale). 

Nessuno dei sistemi prima esposti è perfetto, anzi. Per dirne una, la recente riunione carbonara di sette club di Eurolega pronti a sfiduciare il presidentissimo Bertomeu è la dimostrazione che tutto è migliorabile ed anche i sistemi apparentemente più solidi hanno delle falle. Tornando al pallone, ho udito colleghi affatto preparati parlare di "sistema NBA" senza evidentemente sapere cosa significhi: perché la NBA non è solo un torneo chiuso in cui non esistono promozioni, retrocessioni, coppe nazionali, vivai. Il mondo con l'effige di Jerry West è prima di tutto una macchina da denaro gestita col pugno di ferro e regole standard, lontane dal desiderio europeo di piccola indipendenza che poi si traduce nel classico "faccio quel che mi pare". NBA organizza tutto, dalla A alla Z, prendendosi oneri oltre che onori ed obbligando tutti a seguire lo stesso regolamento: immaginate un'Europa in cui viene detto al top club di turno che non può ingaggiare altri giocatori gonfiando il monte salari se non paga una salata penale da redistribuire ai suoi diretti concorrenti. Oppure veterani che devono scegliere tra occasioni da titolo al minimo sindacale o un ultimo scampolo di carriera con la solita maglia, ricoperti di soldi ma destinati a restare a margine del successo. Oppure il merchandising amministrato da un solo, unico ente che tratta con i fornitori a nome di tutti e vigila sul relativo mercato garantendo introiti ma anche bacchettando chi bara sulle regole. Difficile, vero?

Tanti anni fa la rivista "Superbasket" criticò aspramente lo sportismo, il fenomeno dello sport in funzione del modello spettacolo-affari che va in voga negli States. Ma in fondo si tratta di scegliere le proprie priorità, tra la difesa dei valori decoubertiniani (che col varo del professionismo dovrebbero già essere stati seppelliti, ma tant'è) e la necessità di chi investe decine di milioni di euro a botta di trovare un tornaconto che non sia di carattere politico, fiscale o, nei casi più antipatici, di ripulitura del denaro. Scegliete, Gesù o Barabba? Il merito sportivo senza troppe lamentele sullo scarso guadagno o il business fino a sé stesso, anche a costo di mandare a donnine di facili costumi i presupposti dello sport europeo? E non chiedete una terza busta o una via di mezzo perché non può esistere.