martedì 23 novembre 2021

2021: fuga dalla Fortitudo

Vi ricordate Jena (Snake) Plissken di Kurt Russell, il povero Donald Pleasence nei panni del presidente USA, il mitico Ernst Borgnine come improbabile tassista, una New York post apocalittica trasformata in penitenziario all'interno della magnifica visione distopica di John Carpenter? Bene. Dimenticate la fantascienza di "1997: Fuga da New York" e concentratevi su una pellicola di possibile, prossima realizzazione, il cui soggetto è materia d'aggiornamento quotidiano (o quasi) negli ultimi due mesi. Il titolo è presto fatto: "2021: fuga dalla Fortitudo".

Il primo in ordine di tempo ad andarsene è stato il timoniere, l'head coach designato, quel Jasmin Repesa tornato nella metà biancoblu di Bologna con le migliori intenzioni e scappato alla prima occasione, vale a dire dopo una Supercoppa prestagionale da incubo ed un debutto in campionato davvero pessimo. Le motivazioni di circostanza erano le solite, ovvero motivi di salute: Repesa non se la sentiva più di continuare, troppo stressante la mole di lavoro da affrontare in una società che, per sua stessa ammissione, andava risistemata. Nessuno ha voluto scavare all'interno di quelle dichiarazioni sin troppo sibilline, anche se era facile leggervi una insoddisfazione per troppe questioni aperte, dal mercato condotto in maniera abbastanza indecifrabile sino alla telenovela-Fantinelli.

Ecco, Fantinelli può rappresentare il secondo, teorico abbandono. Dico teorico perché in realtà Matteo a Bologna c'è ancora, fisicamente. Solo che, vista la pessima piega degli eventi, difficilmente lo si vedrà in campo a breve-medio termine. Già l'intervento estivo di pulizia del tendine ha determinato un lunghissimo periodo di inattività - forse troppo lungo, forse mai del tutto chiarito anche a Repesa, che si è visto promettere ben altro; poi, poco dopo il teorico via libera alla ripresa dell'attività in gruppo, ecco un nuovo guaio: edema osseo, altro stop e stagione compromessa. Bisogna dire che Fantinelli non è mai stato fortunato con i malanni fisici, tra problemi alla schiena e fasciti plantari che ciclicamente riemergevano: stavolta il guaio è più serio, merita i migliori auguri ed a fronte di un rinnovo contrattuale siglato la scorsa estate ci si può domandare se la mala sorte non abbia deciso di accanirsi su di lui.

Poi ci sarebbe Keith Langford. Che dalla Fortitudo è fuggito prima ancora di metterci piede. Situazione paradossale: la società taglia Malachi Richardson (pupillo di Repesa, malvisto da Martino) per prendere un giocatore meno duttile ma con più punti nelle mani. Il veterano americano è il bersaglio prediletto: sarà vecchio e magari senza il primo passo bruciante di un tempo, sarà anche un elemento difficile da gestire in spogliatoio, ma Langford è Langford. Tutto fatto in meno di dieci giorni, accordo raggiunto ma il giocatore non sbarca mai al Marconi. Motivo? Semplice: è fermo da parecchi mesi e a 38 anni suonati ha bisogno di almeno tre settimane (se bastano...) per tornare ad uno stato di forma decente. Ci sarebbe anche la questione degli arretrati ancora non incassati all'AEK Atene, sua ultima squadra, ma a molti appare come un inutile dettaglio.

La quarta fuga, comunque autorizzata anche se non priva di ricadute, è quella di Tommaso Baldasso. Che nella Bologna biancoblu era arrivato meno di un anno fa dopo un'altra fuga, quella dalla defunta Virtus Roma di Toti, scomparsa a stagione in corso. Approdando in Effe, Baldasso si era abbandonato ai soliti proclami che tanto piacciono ai tifosi: cuore Fortitudo, ammirazione per l'ambiente, voglia di lottare, bla bla bla. Alla riprova dei fatti, pur risultando un giocatore utile ma non fondamentale (e più guardia che play, come scoperto dallo stesso Repesa), non ha resistito poi molto. Appena Milano ha scoperto i problemi fisici di Delaney e soprattutto ha saputo della positività al doping di Moraschini - a proposito: ma chi è che fa circolare nello spogliatoio meneghino la pomata proibita di cui era già stato utilizzatore Burns? - la caccia ad un regista italiano si è aperta. Ed ecco arrivare la trattativa con Baldasso, trapelata nel weekend e chiusa ufficialmente soltanto ieri. Col giocatore che, per non sminuire la retorica di cui sopra, si concede altre dichiarazioni di presunto amore per la maglia, confermando comunque l'addio. Insomma, altro che "Per amore eccetera": carriera e soldi vengono prima, poche balle.

L'ultimo a scappare, questo sì a sorpresa, è Brandon Ashley. Che di tutti gli stranieri passati per la Effe era stato, assieme al rinforzo in corsa Durham, il meno peggio ed il più costante. All'allenamento pomeridiano di oggi, Ashley non c'era. Infortunato? No, e comunque l'infermeria felsinea è già abbastanza piena. Non possedendo altra cittadinanza sportiva se non quella statunitense, è impossibile che il giocatore fosse convocato per una Nazionale. Semplicemente il lungo americano se ne è tornato a casa senza avvertire. A scoprirlo prima di tutti è stato il suo compagno di club Robin Benzing incrociandolo in aeroporto a Francoforte: il tedesco è rientrato in patria per rispondere alla chiamata della propria Nazionale e, vedendo un volto a lui noto, ha salutato e chiesto dove fosse diretto ottenendo la più semplice delle risposte, cioè "Torno a casa". Se è stata una leggerezza ovvero una dimenticanza ("Scusate, il campionato è fermo, ho pensato di tornare a far visita ai miei, non sapevo di dover avvertire") lo si saprà solo nei prossimi giorni. Il sospetto che serpeggia è che Ashley abbia solo colto al balzo l'opportunità di andarsene da Bologna. Resta da capire se sia solamente un colpo di testa isolato o una fuga ponderata, magari con motivazioni che possono spaziare in tante diverse ipotesi, dal rapporto magari non eccelso con il coach ad eventuali ritardi nella corresponsione degli stipendi. Quel che è certo è che se uno scrittore volesse redigere il soggetto di un film, già con queste fughe avrebbe abbastanza materiale. Sempre che lo stillicidio sia finito. E mentre la tifoseria rumoreggia e continua a chiedere spiegazioni di troppe scelte sbagliate - Meo Sacchetti ancora ringrazia - e di troppe voci allarmanti sulla tenuta economica di un club che si è iscritto al campionato in corso per il rotto della cuffia, ci si domanda se anche questo sia, utilizzando l'hashtag introdotto da LBA, #TuttoUnAltroSport.

martedì 16 novembre 2021

Tutto molto prevedibile

E siamo a tre. Dopo il fulmine a temporale già accennato (Repesa) e la condanna scritta in partenza (Petrovic) è arrivato il turno del predestinato. Non parlo di LeBron ma di Demis Cavina che, rispettando in pieno il pronostico, non mangerà il panettone a Sassari. Perché stupirsi? Era chiaro, limpido, cristallino che la testa del tecnico emiliano fosse sacrificabile, semmai qualcuno si sarà stupito per la separazione anticipata da Clemmons rispetto al divorzio in panchina nell'aria da tempo. Ma cos'hanno in comune Repesa, Petrovic e Cavina? Una cosa semplice: tutti e tre erano le persone sbagliate nel posto sbagliato. E sono tornate a casa: chi volontariamente e chi meno.

Che Cavina dovesse rilevare il posto di Pozzecco alla Dinamo lo avevano capito anche i più ingenui già un anno fa, quando gli episodici scoppi di pace armata tra il cardinal Sardara e l'estroso triestino punteggiavano un confronto serrato che non si vedevano dai tempi del primo Boniciolli in Fortitudo (periodo 2001-2002, per i più deboli di memoria). Ma solo chi non conosce la pallacanestro poteva pensare che Cavina fosse un allenatore non solo da Serie A ma addirittura da formazione con delle ambizioni. Non si parla qui di un tecnico alle prime armi, che può invocare l'inesperienza come scudo difensivo personale, né di un soggetto che dopo un periodo trascorso lontano da palestre e panchine ci riprova. Cavina allena da quasi un quarto di secolo, anche se ha iniziato piuttosto giovane tant'è vero che appena ventiseienne si ritrovò in A2 alla guida del fu Progresso Castelmaggiore. Ma se in questa lunga carriera l'unica esperienza nel massimo campionato risaliva ad un poco esaltante precedente a Roseto, qualcosa vorrà pur dire.

Ecco, Roseto. Cioè Michele Martinelli, il picconatore, l'uomo del caso Sheppard, il liquidatore della Fortitudo post-Seragnoli. Quando chiamò Cavina in Abruzzo, Martinelli fece una delle sue tante scommesse in una stagione dalle premesse abbastanza semplici - annata a squadre dispari, una sola retrocessione, Reggio Calabria menomata dal ciclone Barbaro e partita a handicap, Verona già condannata a sparire per fallimento imminente - e dunque con un paracadute piuttosto ampio. Ebbene, come finì l'avventura di Cavina a Roseto? Male, ovviamente: in una multinazionale del canestro in cui il vecchio ma arzillissimo Mario Boni recitava la parte del leone, si ritrovò triturato da uno spogliatoio affatto remissivo e da un bilancio piuttosto magro di 5 vittorie e 12 sconfitte, tanto da venire sostituito da tale Bruno Impaloni. Impaloni chi? Ecco, appunto: l'allora vice degli Sharks che poi sarebbe passato in fretta ad un ruolo dirigenziale, non rinnovando nemmeno la tessera da allenatore. Tanto dovrebbe bastare a chiarire i contorni della vicenda.

Da quell'esonero in poi, Cavina è stato un coach da A2. Che non è certo un male, visto che in cadetteria ci sono ottimi tecnici che però sono perfettamente consci di non possedere le qualità per allenare (almeno, non con un incarico apicale) al piano di sopra. Per diciannove anni, Demis Cavina non è più stato cercato da club di A, nemmeno da quelli alla canna del gas per esonero del coach titolare o per situazione di classifica deficitaria. In compenso l'A2 l'ha vissuta un po' da ogni latitudine, tra società ambiziose (anche un passaggio a Sassari con finale-promozione persa nel 2009), club in crisi e realtà in prepotente emersione dal basso. Ha pure dei meriti innegabili, Cavina: per referenze, chiedere a Davide Alviti che sotto le sue cure, a Tortona, passò dall'indigesto ruolo di ala grande a quello più congeniale di ala piccola avviando una carriera finora in continua ascesa.

Il problema di fondo di Cavina è non aver mai centrato un risultato assoluto. Niente trofei in bacheca, nessuna promozione dai tempi ormai dimenticati del Progresso: in un basket che si nutre anche di curricula, è un difetto evidente, acuito dal fatto di aver invece fallito in più di un'occasione. Per referenze chiedere a Udine, che aveva scommesso pesante su di lui nel 2018 e che lo ha cacciato dopo pochi mesi, nonostante la classifica non fosse disprezzabile: si parlò di dissapori, di risultati inferiori alle attese, va a sapere cosa c'era di vero. Poi è piovuta dal cielo l'occasione-Sardara con l'operazione Torino, il trapianto della fu Ferentino e poi Cagliari sotto la Mole (in barba alle regole federali sui trasferimenti di titoli, vabbè). Il primo anno, ottimi riscontri fino allo scoppio della pandemia; al secondo giro, sembra che nulla e nessuno possa togliere allo junior team della Dinamo la promozione... almeno sino a quegli attimi finali di gara-5 con Tortona. 

Ed allora, perché Cavina meritava la Serie A? Per un patto non pubblico o non palese con Sardara? Perché in un club la cui proprietà (solo quella?) va a scadenza annunciata, occorre a volte gabellare una scelta casalinga ed a risparmio per una mossa coraggiosa? Per una sorta di operazione-trapianto malriuscita, visto che nell'isola il tecnico si era portato anche Diop che comunque è di proprietà Dinamo da quando nel 2018 la Virtus Feletto ha monetizzato l'investimento iniziale? Chi ci capisce è bravo. Sta di fatto che la rimpatriata a Sassari non è certo una specialità: deve averlo capito anche David Logan, che a quanto pare non aveva così tanta voglia di smettere dopo un campionato di alto livello con Treviso e che a 38 anni suonati è riuscito a convincere Sardara e Pasquini ad offrirgli un nuovo (ovviamente sostanzioso) contratto, riportandolo anche all'antico ruolo di playmaker. E sarà proprio Logan, assieme ad un altro riciclato della cabina di regia come Stefano Gentile, ad ereditare la guida del timone in campo di una Dinamo in piena crisi, malmessa in LBA e appesa ad un filo in BCL. Tanto per non farsi mancar nulla, poche ore prima di silurare Cavina il club sardo ha annunciato il ritorno di Filip Kruslin, un ex pretoriano di Pozzecco. Che comunque non tornerà a Sassari: il rapporto con Sardara è finito, fare il vice di Messina all'Olimpia è divertente oltre che remunerativo ed in fondo a Milano ha pure spazio occasionale per le sue esuberanze. Toccherà invece a Piero Bucchi, le cui ultime uscite in panca sono tutto fuorché esaltanti - subentrato e retrocesso a Cantù, scomparso a Roma e Caserta, dimissionario a Pesaro; insomma, non un profilo così rassicurante anche se il curriculum complessivo è diverso da quello del predecessore. Immagino gli scongiuri dei tifosi sardi più scaramantici: passare da un coach non promosso dall'A2 ad uno che in A2 ci era finito sei mesi fa non è esattamente confortante.