E siamo a tre. Dopo il fulmine a temporale già accennato (Repesa) e la condanna scritta in partenza (Petrovic) è arrivato il turno del predestinato. Non parlo di LeBron ma di Demis Cavina che, rispettando in pieno il pronostico, non mangerà il panettone a Sassari. Perché stupirsi? Era chiaro, limpido, cristallino che la testa del tecnico emiliano fosse sacrificabile, semmai qualcuno si sarà stupito per la separazione anticipata da Clemmons rispetto al divorzio in panchina nell'aria da tempo. Ma cos'hanno in comune Repesa, Petrovic e Cavina? Una cosa semplice: tutti e tre erano le persone sbagliate nel posto sbagliato. E sono tornate a casa: chi volontariamente e chi meno.
Ecco, Roseto. Cioè Michele Martinelli, il picconatore, l'uomo del caso Sheppard, il liquidatore della Fortitudo post-Seragnoli. Quando chiamò Cavina in Abruzzo, Martinelli fece una delle sue tante scommesse in una stagione dalle premesse abbastanza semplici - annata a squadre dispari, una sola retrocessione, Reggio Calabria menomata dal ciclone Barbaro e partita a handicap, Verona già condannata a sparire per fallimento imminente - e dunque con un paracadute piuttosto ampio. Ebbene, come finì l'avventura di Cavina a Roseto? Male, ovviamente: in una multinazionale del canestro in cui il vecchio ma arzillissimo Mario Boni recitava la parte del leone, si ritrovò triturato da uno spogliatoio affatto remissivo e da un bilancio piuttosto magro di 5 vittorie e 12 sconfitte, tanto da venire sostituito da tale Bruno Impaloni. Impaloni chi? Ecco, appunto: l'allora vice degli Sharks che poi sarebbe passato in fretta ad un ruolo dirigenziale, non rinnovando nemmeno la tessera da allenatore. Tanto dovrebbe bastare a chiarire i contorni della vicenda.
Da quell'esonero in poi, Cavina è stato un coach da A2. Che non è certo un male, visto che in cadetteria ci sono ottimi tecnici che però sono perfettamente consci di non possedere le qualità per allenare (almeno, non con un incarico apicale) al piano di sopra. Per diciannove anni, Demis Cavina non è più stato cercato da club di A, nemmeno da quelli alla canna del gas per esonero del coach titolare o per situazione di classifica deficitaria. In compenso l'A2 l'ha vissuta un po' da ogni latitudine, tra società ambiziose (anche un passaggio a Sassari con finale-promozione persa nel 2009), club in crisi e realtà in prepotente emersione dal basso. Ha pure dei meriti innegabili, Cavina: per referenze, chiedere a Davide Alviti che sotto le sue cure, a Tortona, passò dall'indigesto ruolo di ala grande a quello più congeniale di ala piccola avviando una carriera finora in continua ascesa.
Il problema di fondo di Cavina è non aver mai centrato un risultato assoluto. Niente trofei in bacheca, nessuna promozione dai tempi ormai dimenticati del Progresso: in un basket che si nutre anche di curricula, è un difetto evidente, acuito dal fatto di aver invece fallito in più di un'occasione. Per referenze chiedere a Udine, che aveva scommesso pesante su di lui nel 2018 e che lo ha cacciato dopo pochi mesi, nonostante la classifica non fosse disprezzabile: si parlò di dissapori, di risultati inferiori alle attese, va a sapere cosa c'era di vero. Poi è piovuta dal cielo l'occasione-Sardara con l'operazione Torino, il trapianto della fu Ferentino e poi Cagliari sotto la Mole (in barba alle regole federali sui trasferimenti di titoli, vabbè). Il primo anno, ottimi riscontri fino allo scoppio della pandemia; al secondo giro, sembra che nulla e nessuno possa togliere allo junior team della Dinamo la promozione... almeno sino a quegli attimi finali di gara-5 con Tortona.
Ed allora, perché Cavina meritava la Serie A? Per un patto non pubblico o non palese con Sardara? Perché in un club la cui proprietà (solo quella?) va a scadenza annunciata, occorre a volte gabellare una scelta casalinga ed a risparmio per una mossa coraggiosa? Per una sorta di operazione-trapianto malriuscita, visto che nell'isola il tecnico si era portato anche Diop che comunque è di proprietà Dinamo da quando nel 2018 la Virtus Feletto ha monetizzato l'investimento iniziale? Chi ci capisce è bravo. Sta di fatto che la rimpatriata a Sassari non è certo una specialità: deve averlo capito anche David Logan, che a quanto pare non aveva così tanta voglia di smettere dopo un campionato di alto livello con Treviso e che a 38 anni suonati è riuscito a convincere Sardara e Pasquini ad offrirgli un nuovo (ovviamente sostanzioso) contratto, riportandolo anche all'antico ruolo di playmaker. E sarà proprio Logan, assieme ad un altro riciclato della cabina di regia come Stefano Gentile, ad ereditare la guida del timone in campo di una Dinamo in piena crisi, malmessa in LBA e appesa ad un filo in BCL. Tanto per non farsi mancar nulla, poche ore prima di silurare Cavina il club sardo ha annunciato il ritorno di Filip Kruslin, un ex pretoriano di Pozzecco. Che comunque non tornerà a Sassari: il rapporto con Sardara è finito, fare il vice di Messina all'Olimpia è divertente oltre che remunerativo ed in fondo a Milano ha pure spazio occasionale per le sue esuberanze. Toccherà invece a Piero Bucchi, le cui ultime uscite in panca sono tutto fuorché esaltanti - subentrato e retrocesso a Cantù, scomparso a Roma e Caserta, dimissionario a Pesaro; insomma, non un profilo così rassicurante anche se il curriculum complessivo è diverso da quello del predecessore. Immagino gli scongiuri dei tifosi sardi più scaramantici: passare da un coach non promosso dall'A2 ad uno che in A2 ci era finito sei mesi fa non è esattamente confortante.
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