venerdì 11 giugno 2021

Ci vuole Sale (ed un pizzico di pepe)

La più dolce delle rivincite. Forse il più bello degli scudetti, per la Virtus Bologna ma non solo. La definizione chiara, limpida, cristallina dell'importanza dell'allenatore nella costruzione tanto tattica quanto mentale di un collettivo. La vittoria della Segafredo con un percorso netto invidiabile nei playoff è merito di una coppia di allenatori che appena sei mesi fa veniva cacciata con un editto più che bulgaro, una defenestrazione pessima nei tempi, nei modi, nella gestione anche della comunicazione. Per Goran Bjedov ma ancor di più per Sale Djordjevic è lo scudetto della rivincita contro chi li riteneva inadatti a ridare un'identità vincente ad una (ex) nobile decaduta, valorizzando al contempo gli italiani e soprattutto uno dei migliori prodotti del vivaio.

Si può dire di tutto di Djordjevic. Che sia vulcanico, a volte collerico, perfezionista, indubbiamente plavo come avrebbe detto il povero Aldo Giordani. Bjedov è un po' la sua coscienza critica, il contenitore, l'uomo dei dettagli, il tattico, lo specialista del lavoro individuale. In due hanno riportato la Virtus prima a vincere qualcosa di abbastanza importante - ricordate la BCL del 2019? - poi a guadagnare una posizione di rispetto in campionato, infine a raccogliere uno scudetto che alla metà bianconera di Bologna mancava dal 2001, l'anno dello Slam. Il tutto, grazie anche ad un ragazzino che fino ad un anno fa pareva lo sparring partner buttato in campo giusto per fare un po' di casino e che da allora è diventato pedina imprescindibile: Alessandro Pajola.

Uno scudetto molto plavo. Djordjevic, Bjedov, Teodosic, Markovic: un poker che ha trasmesso inusitata tranquillità e modalità vincente anche a Pajola oltre che ad un collettivo che a dicembre pareva la brutta copia della stagione precedente più i gemelli scarsi di Abass ed Adams. Senza citare Belinelli, il casus belli dell'esonero più farsesco mai visto: il suo infortunio, non comunicato a dovere alla proprietà, aveva condotto al licenziamento poi revocato per assenza di alternative. I mugugni si erano ripresentati ad aprile con la sconfitta in semifinale di Eurocup contro Kazan, un ko dopo una stagione da imbattuta in Coppa che pareva destinare la Virtus al fallimento sportivo. Nessuno però si ricorda che nell'occasione alle Vu Nere era zoppa a causa delle imperfette condizioni di Stefan Markovic che in carriera non è quasi mai stato un realizzatore ma un eccellente equilibratore tra direzione del gioco offensivo e strategia della difesa. Markovic era reduce dal Covid e giocò quella serie contro l'Unics in evidente debito di ossigeno. In finale scudetto la preparazione fisica è stata ben diversa ed i risultati si sono visti.

Vince con merito la Virtus. Perde, seppur salvando parzialmente la faccia con una gara4 equilibrata per 37 minuti, Milano. Che era teoricamente più lunga, più forte, più talentuosa e sicuramente più costosa della rivale felsinea. Ma che era anche stata costruita con troppi errori alla fine capitali: assemblata con il chiaro obiettivo dell'Eurolega, l'Olimpia è arrivata a fine stagione mentalmente e fisicamente ai minimi termini a causa della spremitura costante dei suoi veterani stranieri, dopo aver relegato la pattuglia dei panda italiani a comparse o a materiale da tappezzeria. Mentre Pajola giocava acquisendo esperienza, Moretti finiva in tribuna; mentre Ricci recuperava sicurezza, Abass ritrovava sé stesso, Alibegovic mostrava lampi di classe e di forza, Cinciarini finiva in naftalina, Biligha faceva la comparsa, Wojciechowski (prelevato a peso d'oro da Biella in A2...) spariva dai radar e Moraschini doveva in continuazione adattarsi a giocare poco e spesso fuori ruolo. Questa è la più grande sconfitta di Ettore Messina, che non ha saputo comprendere l'importanza di un gruppo realmente profondo e con responsabilità condivise tra campionato e Coppa: il fatto che il coach veneto sia incappato nella peggior finale scudetto della sua carriera, la prima persa in assoluto, dice molto dell'annata contradditoria di Milano.

Se siete amanti della cabala, la tradizione in fondo si è ripetuta. Milano negli anni dispari non vince: stavolta almeno è arrivata in finale, anche se le premesse per l'atto conclusivo erano tutt'altro che pessimistiche; nel 2015, 2017 e 2019 era rimasta a guardare dopo essersi fermata in semifinale. Magra consolazione. Così come è assurdo definire buona o addirittura ottima un'annata che è sì coincisa col ritorno dopo una vita alle Final Four di Eurolega ma che si è chiusa con in bacheca la pallidissima Supercoppa giocata senza concorrenti veri e la Coppa Italia in cui le rivali erano non pronte oppure troppo indebolite o palesemente inadeguate.

Discorso diverso per la Virtus, che nei playoff ha tremato solo in gara3 a Treviso. Si può dire che lo scudetto bianconero sia nato lì, dopo il -15 all'intervallo, la rimonta costruita in difesa, l'overtime giocato coltello tra i denti. Lì è emerso il vero spirito plavo della squadra - ed onore pure alla De' Longhi, ad un passo dall'impresa. Ed ora sarà curioso capire che ne sarà di quello spirito, giacché se Teodosic vanta ancora un anno di accordo a cifre molto importanti (eufemismo), la triade Djordjevic-Bjedov-Markovic è in scadenza. Fino ad un mese fa parevano tutti e tre con le valigie in mano: i due tecnici per il naturale epilogo dopo l'esonero fantasma invernale, il play per aver fomentato all'epoca la protesta e per un rendimento inferiore all'annata precedente. Il tempo dei ripensamenti invece è già iniziato, complici le poco esaltanti alternative sul mercato - Trinchieri ha rifiutato, Pianigiani non entusiasma nessuno, Scariolo andrà altrove. Che il trio resti o meno a Bologna, Djordjevic ha già dimostrato il proprio valore: può scegliere se andarsene da campione, a braccia alzate ed anche con un moto d'orgoglio, oppure sfruttare il successo per dettare le condizioni per un proseguimento del rapporto. Comunque lui ha vinto, su tutti i fronti. E scusate se vi par poco.

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