Se un giorno Alessandro Pajola da Ancona, classe 1999, diventerà un giocatore d'altissimo livello dovrà ringraziare una sola persona. Non la mamma che l'ha fatto, né chi lo convinse a 15 anni a mollare la coperta di Linus della Stamura per vestire il bianconero - per quanto la scuola di Giordano Consolini sia ancora oggi una delle più valide in Italia per i giovani. Quella persona è Aleksandar Djordjevic.
Siete stupiti? Io no. Perché Sasha sarà pure vulcanico, collerico, poco tattico e molto viscerale, ma sa trasmettere motivazioni e sa lavorare con i giovani. Volete qualche esempio? Prendete quel playmaker che oggi è a Venezia, Andrea De Nicolao. Sapete da dove è partito? Da Vigodarzere, provincia di Padova, passando per le giovanili Benetton e poi un primo assaggio in prima squadra ai tempi di Frank Vitucci. Spedito in prestito in B1 (avessi detto almeno l'allora Legadue: no, proprio B1), a rivolerlo in Serie A fu Djordjevic nonostante il ragazzo all'epoca fosse scettico visto che davanti a lui nel ruolo avrebbe avuto due mostri sacri come Bulleri e Becirovic oltre che un Nazionale israeliano come Mekel. Invece la sua carriera partì da lì per arrivare alle affermazioni successive. Perché con i giovani serve prima di tutto il coraggio di farli giocare, fregandosene a volte del risultato di squadra.Pensate sia pazzo? Eppure le stesse parole le ha usate Claudio Coldebella, il metro di paragone massimo cui riferirsi abitualmente nei discorsi che riguardano Pajola. Lui, che fu il primo vero play atipico moderno, oggi conferma da dirigente (ed anche ex allenatore) quel che dovrebbe essere chiaro ai più ed invece risulta ostico o incomprensibile a moltissimi: i giovani devono giocare. Non allenarsi e guardare le partite, come ha fatto Moretti per un anno buttando via una stagione preziosissima della propria carriera. Pajola, che rispetto a Moretti ha un anno e mezzo di meno, da tre stagioni gioca: prima poco, poi un po' di più, sempre prendendosi delle sonore badilate in faccia tanto metaforiche quanto letterali; però quelle badilate l'hanno aiutato a crescere, a capire quali abilità sfruttare, come nascondere i punti deboli, come esaltare le proprie capacità e le doti fisiche. Oggi a ventuno anni Alessandro Pajola gioca da protagonista in stagione regolare, in Eurocup, nei playoff, vedendosela con veterani del ruolo e americani, in una rotazione interna che prevede due serbi dal carattere pepato e dal pedigree professionale alquanto corposo per non dire ingombrante. Moretti nel frattempo si allena per poi non andare nemmeno nei 12 in una gara1 contro la Trento meno razionale e più scarsa (nel senso tavcariano del termine) degli ultimi cinque anni.
Per compiere un determinato percorso però servono due presupposti. Il primo appartiene al giocatore ed è la sua voglia di emergere. Deve essere una vera fame, come quella che caratterizzava i serbi, i croati, gli sloveni che si ammazzavano di fatica in palestra per cercare di entrare in uno dei pochi club ammessi nel campionato nazionale più competitivo d'Europa, quello della vecchia Jugoslavia. Se il giovane ha già questa dote innata, è a buon punto. Il secondo elemento è un allenatore che creda in lui, che lo sviluppi, che gli conceda il tempo di sbagliare (sì, sbagliare), ma in campo, in partita, a costo di farsi massacrare da un americano che magari crede ancora che di qua dall'Atlantico ci sia il Terzo Mondo cestistico. Una sana razione domenicale di rospi da ingoiare, più le lavate di capo dell'allenatore, più le sedute supplementari per lavorare sul proprio gioco, più intelligenza applicata alla pallacanestro più la sopra menzionata fame... et voilà, eccovi servito il vostro Alessandro Pajola.
Prendete invece un talentino niente male, figlio di cotanto padre. Mandatelo in America, perché il mito USA del college è duro a morire pure da queste parti. Circondatelo della giusta aura mediatica, fatene un fenomeno da comunicare prima che un giocatore vero. Dotatelo del giusto procuratore che sappia valorizzarne non certo le doti tecniche, atletiche o intellettive (che non mancano, sia chiaro, mica parliamo di un imbranato!), quanto piuttosto l'assai presunta capacità d'esprimere una pallacanestro immediatamente d'impatto ottenendo in cambio un contratto a cifre molto alte. Affidatelo ad una squadra sin troppo profonda e che ha l'obiettivo di vincere tutto subito, senza badare a spese ma senza tempo per sviluppare qualcuno e che con questa politica negli ultimi anni ha bruciato un'intera generazione di giovani (peraltro quasi tutti nello stesso ruolo, bella casualità!). Ecco, ora avrete il vostro Davide Moretti attuale, un 23enne che raramente si schioda dalla panchina e che spesso si accomoda direttamente in tribuna. Ruolo che ci si aspetterebbe fosse cucito, in un basket accompagnato da regole protezionistiche che neanche il WWF, su misura per il sedicenne, magari figlio del dirigente, che arriva dalle juniores come ultimissimo di rotazione, giusto per avere il dodicesimo quando serve causa infortuni altrui e che abitualmente porta borse e borracce, gonfia i palloni, asciuga il parquet dal sudore e che, se buttato in campo in garbage time e magari segna pure un punto o più, al primo allenamento deve portare un maxi vassoio di paste e subire qualunque scherzo o battuta dai veterani. Non certo per chi, secondo alcuni, a breve dovrebbe trovare posto in azzurro scalzando la precedente generazione dei Cinciarini e dei Vitali.
Ora nelle vesti di Pilato che ha visto Pajola stampare al debutto personale nei playoff di Serie A un +22 di plus/minus in faccia a Russell e Imbrò ed un Moretti nemmeno convocato da Messina per una comoda Milano-Trento in cui alla fine ha giocato persino Wojciechowski ripescato dall'A2 di Biella, vi chiedo: volete Gesù o Barabba? Preferite il talentuoso che spreca il suo tempo invece di giocare oppure quello brutto, sporco (a difendere) e rognoso che si fa insultare in inglese, serbocroato, italiano e forse pure in bolognese stretto ma che alla fine, stringi stringi, ottiene una svolta alla propria carriera? Io una risposta ce l'ho ma la domanda non è rivolta a me.
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