venerdì 27 settembre 2019

La scommessa (vinta) di Giovanni Favaro

Per una volta non parliamo di aspetti tecnici o agonistici. Parliamo di organizzazione. Quindi rivolgo un plauso sincero al direttore generale di Treviso Basket Giovanni Favaro. Devo anche spiegarvi perché? 

Guardate la foto, sintesi di un Palaverde pieno come un uovo, come era stato nelle scorse finali promozione di A2 ed in poche altre occasioni. Scontato? Non direi, viste le tante polemiche attorno. Perché oltre alla questione parcheggi, stucchevole e ripresa in maniera abbastanza fuori luogo da un quotidiano locale oggi, c'era il problema di fondo del match fuori abbonamento.

Qualcuno può esserselo dimenticato ma la partita contro Milano era stata esclusa dalle tessere stagionali e l'annuncio, rilasciato alcuni mesi fa, aveva fatto subito discutere. Giusta o sbagliata, la decisione aveva scatenato la solita ridda di voci ed il consueto rumore di sottofondo, il brusio o brontolio, tipico del trevigiano medio. Accuse di voler speculare, di voler far cassa, di non rispettare gli abbonati. E lo spettro di offrire una cornice non del tutto degna all'occasione, cioè il gran debutto in Serie A - o, se si preferisce, il ritorno della piazza di Treviso nel massimo campionato.

Invece ieri sera in quel meraviglioso catino che è il Palaverde non avanzava spazio nemmeno per uno spillo. Gente in piedi, gente seduta sulle scale, tutti impegnati a gustarsi lo spettacolo della Serie A ed a sostenere dagli spalti. La scommessa si è rivelata vincente.

Tutto bene? Non proprio. E non mi riferisco alla partita. Si può ancora crescere e migliorare. Il presidente Vazzoler auspicava ieri sera che il ruggito del pubblico trevigiano, quello udito nelle finali contro Capo d'Orlando e che aveva stupito tutti lo scorso giugno, diventasse una costante. Ecco, quel ruggito va recuperato. Il successo della stagione di Treviso Basket passerà anche per questi dettagli.

venerdì 6 settembre 2019

Oh Romeo, Romeo...!

...perché non sarai più tu il commissario tecnico dell'ItalBasket, Romeo?

Perdonate la licenza teatrale ma già prima della partenza della carovana azzurra per l'Oriente era risaputo del rischio corso dalla guida tecnica del convoglio. Risultato buono (traduzione: ingresso nelle migliori otto) oppure tanti saluti ed arrivederci. Con nome di rincalzo già pronto. Ed è un nome che ricalca in buona sostanza la tipologia schizofrenica delle scelte federali in almeno tre casi negli ultimi dieci anni.

Sacchetti pagherà caro, pagherà tutto. Colpe ne ha, intendiamoci, ma non è il solo. Le sue responsabilità sono da ricercare in un gioco troppo prevedibile per essere efficace sul lungo periodo - rotazione ossessiva per il ricciolo o lo scarico sul perimetro - e su alcune scelte in fase di selezione preliminare, per quanto condizionate da fattori esterni. Certo, non è colpa di Sacchetti l'improvvisa indisponibilità di Melli che ha privilegiato il sogno NBA (capitolo su cui tornerò più avanti), né l'ormai evidente assenza di lunghi di ruolo spendibili in ambito internazionale.

I pochi sostenitori di Pietro Aradori forse staranno gongolando, pensando che se il loro beniamino fosse rimasto in gruppo forse qualcosa sarebbe cambiato. Forse. Magari. Ma quello è un discorso anche caratteriale ed è indubbio che a volte un CT voglia dare un segnale forte allo spogliatoio facendo capire che il posto non è garantito a nessuno. La questione del figlio, giocatore che peraltro non mi è mai piaciuto, non la voglio nemmeno toccare: si sono sprecati fiumi di inchiostro per negare un nepotismo mai esistito e paventato da ignoranti della materia. Brian Sacchetti è ed è sempre stato un'ala perimetrale con poco talento, tanta voglia di difendere duro (a volte troppo) ed un pizzico di ignoranza cestistica: in un gruppo fortemente operaio aveva una sua logica. La sua colpa non è stata essere figlio dell'allenatore ma essere l'ennesimo doppione di ruolo di un roster carente di centimetri, di gioco in post basso e spalle a canestro ma fin troppo ricco di tiratori e di elementi involuti.

Abbiamo troppe guardie, troppe ali. Pochi play, e quei pochi suddivisi tra equivoci, giocatori a volte scartati e poi ripescati, ibridi. Quasi nessun centro: per il Paese che ha sfornato Dino Meneghin, il povero Ciano Vendemini, Arione Costa e la coppia Marconato-Chiacig, sembra una bestemmia. E qui iniziano i veri mali del nostro basket. Perché la produzione del ruolo si è assottigliata, perché oggi in Nazionale vanno un Biligha paurosamente deficitario di centimetri che non sempre può compensare con la grinta o un Tessitori che a 25 anni è digiuno di basket di alto livello e paga l'ingenuità - a casa resta Cervi che somiglia sempre più ad un caso di centimetri rubati al volley. Il discorso è complesso, parte dalla mancanza di progettualità, da istruttori che non vedono riconosciuti i loro meriti e dopo un po' si stufano e lasciano perdere, da società che vedono nei settori giovanili un costo obbligatorio e non una vera risorsa; si passa poi a regolamenti del piffero, iper-protezionistici per i panda nostrani che passano 2-3 anni a fare panchina senza giocare perché Under e che poi si trovano la strada sbarrata dall'americano di turno che dura (se va bene) una stagione, perché ingaggiare un USA&getta costa sì e no 120mila-150mila dollari più tasse a stagione, mentre un giovane da crescere richiede un investimento costante per 4-5-6 anni, col rischio di sbagliare qualcosa e dover rinunciare. Ed infine c'è matrigna FIP che il risultato lo vuole, eccome se lo vuole, ed il premio di risultato alias NAS lo ha imposto uccidendo il sistema, già malato tra l'altro, ché i vivai non sono certo rinati né gli allenatori che lavorano con i giovani e li fanno maturare vengono premiati con contratti più remunerativi o possibilità reali di carriera.

Immagino la faccia di Giannino er laziale qualora dovesse leggere queste mie righe. Sarebbe identica al dottor Eldon Tyrell (Joe Turkel) di "Blade Runner": "Tutto questo è accademia!". Sì, certo, può darsi. Ma è anche accademia, dannosa peraltro, naturalizzare l'ennesimo 3-4 ininfluente ad altissimo livello invece di tappare la falla in area cercando qualcosa di meglio in un ruolo scoperto. Perché Jeff Brooks, altra scelta discutibile a più livelli, non pare aver fatto compiere il salto di qualità ad un gruppo quasi a fine corsa. Appare qui paradossale come l'ultimo naturalizzato davvero utile alla causa sia stato Nikola Radulovic, uno scarto della Croazia, un giocatore sbocciato a 28 anni grazie al matrimonio con la figlia della compianta Mirja Poljo. Eppure Radulovic fu davvero la panacea ad un male passeggero, la mancanza temporanea di un'ala pura con centimetri e tiro da fuori: una lacuna che ad inizio anni 2000 era evidente e che poi si è colmata ottimamente. Ma all'epoca si pensò giustamente in funzione del problema immediato, confidando in sviluppi positivi per quel che sarebbe stato in seguito.

Ecco, bisognerebbe iniziare a ragionare sul futuro. Che non è soltanto il Preolimpico, obiettivo minimo centrato grazie alla ridicolaggine delle Filippine ed all'inadeguatezza dell'Angola. Il futuro significa la squadra che verrà e che dovrà essere per forza di cose rivoluzionata. Belinelli ha 33 anni, Datome e Hackett 32 (Daniel a fine 2019), Gallinari 31 come Aradori. Bargnani, che ne avrebbe 34 tra poco, è sparito dal radar tre anni fa. In parole povere la generazione NBA, quella del salto di qualità, ha fallito. La Nazionale andrà ricostruita su Della Valle, doppione tra l'altro di Belinelli che in questo Mondiale è tornato ad essere lo #SDENG! di dieci anni fa, confermando la parabola discendente di carriera in azzurro; con lui, si potrebbe riprendere il discorso con Biligha e Tessitori, a patto che possano compiere l'ultimo balzo in avanti. Ci sono Mussini e Moretti che spingono per avere spazio (il secondo sta dimostrando di poter davvero far qualcosa di buono). C'è Fantinelli che è alla prova decisiva della carriera. C'è Tonut che merita maggiore considerazione. C'è Gaspardo che potrebbe ricevere l'ultima chance. C'è Flaccadori cui l'estero potrebbe far bene. Bisogna capire cosa ne sarà di Melli. Ed occorrerà ragionare appunto sui senatori attuali, a costo di fare altre scelte impopolari. La Francia diventò una Nazionale credibile quando rinunciò a far ragionare tatticamente Tariq Abdul Wahad, non convocandolo più: forse sarebbe il caso di imitare tale decisione, smettendo di illuderci che Gallinari possa sempre cavare il coniglio dal cilindro o che a Belinelli e Gentile si riapra la vena giusta.

Torniamo al titolo. Romeo Sacchetti quasi sicuramente saluterà tutti al rientro in patria. Al suo posto dovrebbe accomodarsi WDR alias Ovosodo: una personalità difficile, un altro innamorato del tiro da 3 (e ridajela...) col pregio di avere la capacità di riuscire, talvolta, a trovare il giusto mezzo in situazioni tattiche complesse rese ancor più difficili dall'ego dei giocatori. Ma il livornese non sarà la panacea di tutti i mali. In primis perché lavorerà part-time per la Federazione e già questo è un grosso problema. In secundis perché erediterà una Nazionale da svecchiare ma priva già ora di lunghi autentici e con qualche giocatore che non lo ama (qualcuno ha detto Biligha?). Infine perché la Nazionale non è il club in cui si è protetti ed assecondati in tutto ma richiede notevole capacità politica e diplomatica per conciliare aspettative, obiettivi, richieste, possibilità e risorse a disposizione. E la Federazione, dopo l'addio a Recalcati, ha troppe volte cavalcato la tigre del successo del momento pensando che l'allenatore in auge (Pianigiani, Sacchetti) avesse la bacchetta magica. Così non è, dunque... Auguri!