domenica 4 ottobre 2020

L'ingrediente sbagliato

Max Menetti, per chi non lo sapesse, ha completato in gioventù il percorso scolastico conseguendo il diploma di maturità in un istituto alberghiero. Amante della buona tavola - ottima dote, questa - e buon conoscitore non solo di pallacanestro, sa bene che il segreto di una ricetta riuscita è l'amalgama (ahia...) tra ingredienti e sapori, riuscendo a trovare il giusto equilibrio e le dosi corrette. In caso contrario, un piatto potenzialmente eccellente può risultare passabile, appena mangiabile, mediocre insomma. O addirittura pessimo. E' questione semplice e complessa al tempo stesso. E come tutti gli chef sanno, una ricetta affonda le proprie radici nella spesa alimentare precedentemente effettuata.

Ora, che la dispensa di Treviso Basket non sia ricca come l'anno scorso credo sia palese. Che la società abbia dato un profondo giro di vite alla capacità di spesa per gli approvvigionamenti della cucina è il segreto di Pulcinella. Che quasi tutti - sottolineo il quasi - gli ingredienti siano stati presi o confermati al ribasso, è risaputo. Ma se il segreto di un grande chef poggia sul saper esaltare anche i sapori più poveri o sottovalutati, ci sono alcuni azzardi che non sono accettabili. Neppure di fronte a ristrettezze economiche.

Perché diciamocelo chiaramente, sempre restando in ambito di metafore culinarie: se ho a disposizione una Toma Piemontese magari non pregiatissima ma già testata in due ricette di successo, non la baratto con una insipida e sconosciuta Alfredo Sauce che nasconde al suo interno chissà quali mediocrità. Soprattutto se il costo è praticamente il medesimo. E se ho bisogno di un puntello di sapori e sostanza, non lo cerco alle pendici del Montello dove al massimo trovo della casatella che può giusto pulire la bocca dopo un pasto, ma esploro ogni possibilità offerta dal mercato alimentare. Insomma, anche se i soldi sono quelli e se non c'è tutta l'abbondanza del passato, occorre capire come, dove e quando azzardare. Altrimenti, per citare quel volpone di Joe Bastianich, avremo solo dei piatti "diludenti".

Attualmente il carrello della spesa di TVB presenta una cinquina di prodotti abbastanza buoni, tra elementi freschi e molto malleabili ed altri al massimo della stagionatura. Le alternative però sono poche e carenti sotto diversi punti di vista. E francamente, la Alfredo Sauce è proponibile forse nelle tavole calde e nelle mense aziendali in cui si devono riempire gli stomaci senza badare alla qualità ma solo rispettando dettami di quantità. "La cucina è un'altra storia" (B. Barbieri).

E' chiaro che in questo momento chiunque vorrebbe essere al posto di chi possiede cucine di alto design o di chi può contare su un robusto caffè a fine pasto: gli chef con queste doti attualmente in Italia sono soltanto due e, per loro somma fortuna, non devono barcamenarsi tra bilanci da far quadrare e diktat dalla proprietà o dalla gestione del ristorante quanto a spese. Confrontare le possibilità di chi ha una dispensa ridotta con chi invece può scegliere di volta in volta la marca di champagne per pasteggiare è privo di logica ed irrispettoso per entrambe le parti. Ma se si vuol sognare, se si chiede di andare oltre i confini dell'ordinarietà nel gusto, la scelta oculata degli ingredienti base è fondamentale.

P.S.: anni fa un cestista americano di indubbio talento ma assolutamente privo di un qualsiasi rudimento di cucina lamentò l'assenza in Italia di un noto condimento americano per pastasciutta, gabellato come "prodotto tipico". De gustibus non est desputandum... ma qualcosa mi dice che se mai avesse pronunciato quelle parole in una qualsiasi edizione di "Caseus Veneti", il buon Chris Douglas-Roberts sarebbe stato sottoposto a tortura medievale. Magari tramite cottura per immersione a fuoco lento nella sua adorata Alfredo Sauce.

giovedì 1 ottobre 2020

Bollicine e caffeina

Leggo con un pizzico di curiosità della partnership annunciata stamani tra Virtus Bologna e Astoria Wines. Un rapporto singolare, per chi non comprende la dinamiche che travalicano il semplice dialogo tra azienda e società sportiva. Un filo logico, se pensiamo al core business dei due imprenditori coinvolti ed alla gestione comunicativa dell'intera faccenda.

Piccolo passo indietro. Anno 2016, la Virtus Bologna per la prima volta nella sua storia conosce l'ignominia della retrocessione in A2 - lasciamo stare le vicende di Madrigali e la ripartenza di Sabatini col fu Progresso Castelmaggiore - e si ritrova teoricamente nei guai. Dico teoricamente perché qualunque imprenditore sa che il momento propizio per subentrare nella gestione e proprietà di un'azienda sana è proprio dopo un'improvvisa difficoltà. Anno 2016, la Virtus scende a sorpresa in A2 e si materializza un nuovo sponsor. Chi è? Massimo Zanetti, il re trevigiano del caffè, Mister Segafredo. Non uno sprovveduto né un personaggio digiuno di sport: in carriera ha sponsorizzato scuderie di Formula 1 e società di calcio, arrivando anche a rivestire cariche di spessore nel mondo del pallone da cui però si è allontanato per dissapori di carattere gestionale.

Zanetti a Bologna è conosciuto, Segafredo è una potenza e la Virtus conta comunque su un bel seguito e su potenzialità forse inespresse. Il neo sponsor entra in società con un munifico contributo ma il piano è quello di salire progressivamente nella partecipazione: prima della fine della stagione agonistica, chiusa con l'accoppiata Coppa di Lega-promozione, il manager è padrone della Vu Nera. Di più: Zanetti col passare del tempo capisce che c'è un ampio margine non sfruttato di movimento, che il bistrattato basket se ben gestito può dare ottimi ritorni d'immagine e che un fondo di business c'è sempre. Se l'appetito vien mangiando, il neo-patron non si fa mancare nulla e nel giro di pochi anni riporta il club felsineo nei piani nobili dello sport italiano togliendosi anche lo sfizio di interrompere il lunghissimo digiuno europeo della pallacanestro italica. Al contempo coglie una duplice occasione fornita dalla vetustà dell'impiantistica sportiva e dallo sviluppo progettato dalla Fiera per teorizzare la Segafredo Arena. Che oggi è solo un capannone con le gradinate in tubi Innocenti ma che un domani dovrà diventare una struttura fissa, in muratura, da gestire 365 giorni l'anno per sport, convention, concerti ed altri eventi.

Zanetti resta ovviamente un imprenditore ed a capo del ramo sportivo ha messo uomini di sua fiducia, tra cui quel Luca Baraldi che forse farebbe meglio a misurare qualche frase a beneficio di pubblico e media ma che il suo lavoro lo sa fare eccome. Nell'ambito del core business vale a dire la caffetteria, Segafredo si sta muovendo da tempo per competere alla pari con altri due marchi italiani, cioè la triestina Illy e il derby tutto in casa Zanetti con Hausbrandt. La forza della concorrenza poggia non solo sulla solidità dell'immagine: tanto Illy quanto Hausbrandt battono da anni la strada dei locali brandizzati, di proprietà o in franchising. E lo stesso sta facendo, gradualmente, anche Segafredo. E qui entra in gioco Astoria Wines, marchio conosciutissimo ed apprezzato che porta in dote sia visibilità e contatti che un prodotto spendibile in una distribuzione selezionata. Se in un Hausbrandt Café si trova la birra Theresianer (marchio di casa), in un Segafredo Café non posso gustare le bollicine di un Prosecco DOC Astoria: giusto? Il ragionamento fila, la partnership pure ed il gioco è fatto.

Ecco spiegata una sponsorizzazione che travalica la semplice facciata della magnum da stappare in una cena con la squadra dopo una vittoria. Oggi si chiama B2B, Business to Business; una volta si diceva "rete d'impresa". Il concetto è sempre quello, far lavorare assieme persone, aziende e marchi. Quindi non stupiamoci dell'ovvio né indigniamoci per scelte affatto discutibili. Sono gli affari, baby.