Questa è la storia di una maglia numero 6. Tranquilli, non parlo di Franco Baresi, per quanto una piccola connessione tra il protagonista di questo racconto e l'AC Milan vi sia. Non mi sto riferendo nemmeno a Massimo Iacopini, che anzi quando ha visto a chi era intitolata quella maglia numero 6 ha reagito (bonariamente?) con un moto di comprensibile fastidio. Ma restiamo per un momento sulla maglia. Che poi è una canotta, ma vabbè. Un po' stropicciata, pazienza. Con un quarto di secolo alle spalle, scusate se vi pare poco. Una maglia dimenticata da molti, che alle giovani generazioni non dice nulla ma che a chi ha più di 40 anni strappa una lacrima di nostalgia. Quella canotta verde, con i bordi bianchi, il numero 6, il vecchio logo della Legabasket era in un cassetto di casa mia da tempo immemore e attendeva solo il giusto momento per tornare alla luce. Ossia per trovare un degno proprietario. Che non è (mi scuserà) il suo primo possessore, l'irlandese da battaglia Glenn Sekunda che la indossò all'inizio del suo terzo ed ultimo anno a Treviso, ma un ragazzo che oggi ha i capelli grigi e che dentro è rimasto lo stesso scappato di casa delle telecronache del 1991-92.
Per me Simone Fregonese è stato tante cose. Il bersaglio dei cori della curva negli anni belli della Benetton Basket, cui lui reagiva con un semplice sorriso. Il conduttore di trasmissioni televisive in un'epoca in cui l'ufficio stampa della Ghirada distribuiva lezioni di avanguardia sulle modalità lavorative nell'ambito della comunicazione. Uno dei miei primi approcci con la zona stampa del Palaverde assieme al suo ex socio Enrico Castorina. Compagno di squadra ai Marlins, forse la formazione più ingestibile e per questo più bella di cui abbia memoria. Esempio di multitasking ante litteram, capace di dividersi tra più attività. Emblema di sacrificio nei momenti peggiori, quelli che non vorremmo mai vivere ma che ogni tanto la vita ci riserva come sorpresa sgradita e prova da affrontare.
Con Simone ho lavorato, ho giocato, ho scherzato. Ci siamo confrontati, abbiamo litigato, ci siamo mandati a quel paese. Ci siamo aiutati reciprocamente, senza mai negarci. Perché in fondo questo è il bello del nostro lavoro: qualunque cosa sia successa, chi se ne frega e mai mollare. Mai. Nemmeno di fronte al mondo che ti crolla sotto i piedi, al club che sparisce, alla sedia che traballa, alla prospettiva di restare in disparte, a braccia conserte, a guardare. Ecco, se ho imparato qualcosa da Simone in tanti lustri è che se ci si ferma è davvero la fine. E lui non ha accettato alcun destino presuntamente scritto, nemmeno quando Verdesport decise di smobilitare la branca professionistica. Treviso Basket è nata dai famosi Cavalieri Bianchi, da Paolo Vazzoler, dall'azionariato popolare (presente anche il sottoscritto), dalle campagne stampa. E da Simone Fregonese che accettò per mesi di lavorare gratis, senza sapere se ci sarebbe stato un domani, perché credeva in un futuro diverso.
Come dicevano gli Skiantos, la storia gli ha dato ragione. Quella TVB nata sotto la Loggia dei Trecento, poi nell'incubatrice del Natatorio, svezzata al PalaCicogna, si è presa il giusto posto anche grazie a lui. Che nel frattempo si era sdoppiato con Imoco Volley, una realtà nata in contemporanea con TVB e divenuta vincente in brevissimo tempo. Si sa, le società di vertice non raggiungono determinati risultati per semplice fortuna o per allineamento planetario: tutto è frutto di programmazione e di idee, soprattutto di persone giuste dietro determinate scrivanie e nei posti chiave. Qualche mese fa Imoco ha sottoposto a Simone Fregonese la classica offerta irrinunciabile. Una proposta che non poteva più prevedere un part time né una compresenza. E Simone ha scelto con consapevolezza, ben sapendo che si trattava di recidere un cordone ombelicale con quella che era una sua creatura. Un passo doloroso ma inevitabile in un percorso professionale.
Stasera Simone Fregonese ha salutato il suo basket. Certo, con una vittoria sarebbe stata tutta un'altra musica ma non ci sono stati musi lunghi nei brindisi a fine gara. Abbracciato da una moltitudine di amiche ed amici che hanno condiviso con lui tanta o poca strada, ha salutato un mondo che continuerà ad appartenergli. E lo ha fatto con quella canotta addosso, che cercava un padrone e finalmente l'ha trovato. "Non ho mai avuto una canotta ufficiale della Benetton in guardaroba", ha ammesso lui stesso a dispetto degli oltre vent'anni trascorsi in Ghirada. Ecco perché, incurante delle firme sul retro, ha deciso di indossarla con orgoglio prestandosi alle foto. Non se l'aspettava Simone, un regalo così. Quindi, missione compiuta. Per un ragazzo con i capelli grigi ma che dentro resta sempre un ventenne e per la canotta, che ha 25 anni sulle spalle e pare uscita da qualche varco temporale annidato nei corridoi interni del Palaverde.
PS: se ve lo state chiedendo, niente paura. Simone resterà per sempre uno del basket. Prestato al volley, perché così vogliono le contingenze. Ma sono sicuro che nei prossimi mesi lo vedremo ancora, qua e là, alle partite. Almeno per aiutare quel Bocia che ha preso il suo posto e che ha tantissimo da imparare. Ma con una guida così e con tanti colleghi anziani che gli vogliono bene, anche il più giovane degli apprendisti può star tranquillo.