domenica 24 gennaio 2021

Non è un campionato per stranieri scarsi

Mi perdonerà, spero, Sergio Tavčar se apro questo mio intervento ricordando le sue bellissime telecronache di TeleCapodistria/Koper TV in cui ha sempre raccontato il basket lontano dal sensazionalismo e badando esclusivamente alla sostanza. L'ottimo Tavčar non ha mai lesinato giudizi anche duri su giocatori reputati "scarsi", termine che non riguarda l'inadeguatezza del tasso di talento o delle caratteristiche fisiche ma l'inconsistenza e l'insofferenza a due principi cardine di ogni sport: abnegazione e concentrazione. Insomma, a prescindere dall'altezza, dalla prestanza muscolare o dalla capacità di far danzare la palla tra le proprie dita, per essere un buon giocatore di pallacanestro occorrono mentalità e spirito di sacrificio. Il resto è mancia.

Pare che anche Max Menetti concordi con il grande giornalista triestino. Almeno a giudicare dalle parole con cui ha descritto l'impiego del diciottenne Lorenzo Piccin nel match tra la sua De' Longhi e Milano, gara conclusa con una vittoria meneghina maturata solo negli ultimi secondi. "Non è un premio o un regalo ma la conseguenza del lavoro svolto in settimana. E mi dispiace non aver dato spazio anche a Vittorio Bartoli, lo meritava anche lui e avevamo studiato delle soluzioni apposta". Non semplici elogi ma una netta distinzione che annesso sfogo palese all'indirizzo di un altro giocatore. Chi? Veste sempre biancoceleste, ha il numero 30 sulle spalle e da due partite non schioda il suo posteriore dalla panchina se non in occasione dei timeout in cui, invece di ascoltare le parole dello staff tecnico, ciondola la testa al ritmo della musica diffusa dagli altoparlanti.

In una domenica in cui Piccin (ripeto, 18 anni compiuti lo scorso novembre, teorico undicesimo uomo, giovane di serie e quindi ancora lontano dal primo contratto pro) gioca tredici solidissimi minuti contro gente del calibro di Delaney, Punter e Moraschini ed in cui il suo coetaneo Gabriele Procida ne mette 24 con un'ottima prova balistica e segnali di sorprendente maturità, mi domando che senso abbia continuare ad insistere con le cervellotiche formule di eleggibilità degli stranieri. Se la scusante è una presunta necessità di competitività nelle Coppe europee è bene ricordare che l'Italia non vince qualcosa a livello ULEB dallo Slam della Virtus nel 2001 e che le competizioni FIBA in cui ultimamente si è portato a casa qualcosa vantano un livello tecnico ben inferiore alle ultime edizioni della Korac e  della Saporta. Ed è pure il caso di ricordare che, sulle attuali 15 partecipanti al torneo LBA, solo otto hanno iniziato l'annata con un calendario composto da impegni anche al di fuori dei confini nazionali a fronte però di parecchie squadre che ricorrono alla formula 6+6 (con relativa penale economica) semplicemente perché ritenuta più performante e conveniente rispetto alla ricerca, crescita e valorizzazione dei nostri giovani.

Persino Roma, la Virtus scomparsa a dicembre, aveva scelto il 6+6, spinta dalla necessità di introitare anche gli spiccioli portati dal carneade Liam Farley e dal genitore, disposto a pagare purché il figlio potesse non dico giocare ma almeno sedersi sulla panchina di una squadra di Serie A. Ma vogliamo parlare di altri impresentabili come quel Tyler Cheese firmato da Treviso in virtù di un costo d'ingaggio irrisorio? Oppure dello svedese Andersson, giubilato con sommo sollievo da Varese dopo dieci dimenticabilissime apparizioni? O dei bresciani Ristic e Kalinoski, dei fortitudini Withers e Fletcher (quest'ultimo poi sceso in A2 a Pistoia), del virtussino Adams, dell'ex canturino Woodard, del sassarese Katic? Tutti giocatori magari con una minima utilità in allenamento ma che alla prova dei fatti non strappano certo applausi in partita e che fanno domandare sempre più quale significato abbia l'apertura indiscriminata al tesseramento degli stranieri.

Teoricamente il fondo della situazione lo si era toccato nel campionato 2001/02, quello del "liberi tutti" in cui senza limiti di tesseramento si era vista qualunque nefandezza, da playmaker americani inadatti ad una B nostrana e schierati da club fin troppo creativi a società in ricostruzione cammin facendo che si adattavano a ricostruire daccapo l'intero roster giornata dopo giornata. Se la deregulation dell'epoca non era certo utile, non si può dire che la situazione attuale sia migliore. Lo specchio è Milano che è sì ad oggi l'unica italiana in Eurolega oltre che una delle due sole realtà che possono contare su un vero mecenate, ma è anche quel club diviso tra la necessità di vincere subito e la prospettiva di costruire un domani. L'Olimpia ha un bel settore giovanile da cui sono usciti alcuni prospetti interessanti e negli anni ha provato a far incetta anche di altri italiani giovani da sviluppare. I risultati? Il miglior prodotto del vivaio, Giordano Bortolani, sta combattendo per emergere a Brescia dove invece di costruirgli la squadra attorno hanno preferito farlo partire dalla panchina - spiegatemi voi il senso di questa scelta. Dal 2015 ad oggi sempre Milano ha inchiostrato con le migliori intenzioni e poi scartato La Torre, Fontecchio, Abass, Pascolo, Della Valle. L'ultimo della lista è Davide Moretti, anni 22 anni il prossimo 25 marzo, che la scorsa estate ha preferito rinunciare all'ultima annata al college per tornare in Europa e firmare un pluriennale con i meneghini. I suoi numeri? 2.6 punti in 8.9 minuti di media, col 39% da 2 ed il 26% da 3. Mi rifiuto di chiamarla gavetta, perché ad un quasi 22enne non si dovrebbero certo richiedere ventelli a pioggia ma almeno un impegno costante per minutaggio e rendimento. Così si butta via un anno, forse due, in una carriera che, se tutto va bene, si chiuderà tra tre lustri. All'estero un ragazzo del genere, anche se controllato da un top team, viene spedito in prestito all'interno di progetti tecnici che ne prevedano la valorizzazione assoluta; da noi si spendono cifre importanti per non far giocare un ventunenne che di talento ne ha parecchio e si ingaggiano a stipendi talvolta immeritati degli onesti mestieranti, degli individualisti o dei giocatori che in altri tempi sarebbero stati tagliati dopo due allenamenti di prestagione. Questo è il basket in Italia oggi. E non lamentiamoci, in un simile quadro, del relativo degrado.

(photo credit: Michele Gregolin per Uff. Stampa Treviso Basket)