...un bel Time Out.
Confesso di aver letto con gusto ed attenzione il libro di Flavio Tranquillo dedicato alla vicenda della Mens Sana Siena. Arguto, attento, ricco di materiali: quasi un reportage. Già prevedo gli strali dei tifosi senesi, affatto teneri nei confronti di Tranquillo che era già "il nemico" ai tempi di Tele+ e Sky e che è diventato ancor più antipatico in Toscana dopo che ha iniziato a prendere le distanze dal sistema-Siena denunciandone le storture - nonostante un pagamento in nero a suo favore per una occasionale presentazione nel 2004, peccato confessato in autonomia e che non può certo né deve sminuirne l'onestà professionale.
Ma Tranquillo non ha scritto nulla di inventato. E non ha nascosto nulla. Anzi, ho trovato avvincente il suo tomo proprio perché non si è limitato al lato sportivo. Ha approfondito con dovizia di particolari il lato finanziario della torbida vicenda, non risparmiando nulla e nessuno. Forse qua e là ha ecceduto - il velato coinvolgimento della massoneria mi è parso davvero esagerato, nonostante l'inchiesta abbia lambito Stefano Bisi - ma credo l'abbia fatto con pieno spirito investigativo.
Cosa emerge? Prima di tutto, un cumulo di macerie. Non solo quelle della Siena cestistica, affaristica, sociale. Il basket italiano è stato torturato da tre lustri di cura-Minucci: un periodo in cui si è cristallizzata la situazione per favorire una piccola realtà di provincia, uccidendo la concorrenza, anestetizzando il movimento, demolendo le alleanze che sino a quel momento avevano lavorato per il bene comune. Se nei 15 anni di ascesa e caduta della dittatura mensanina non si sono registrate spinte propulsive di rinnovamento ma solo una mediocrità affatto aurea a contorno di un solo protagonista, c'è ben poco da negare. La colpa è di chi ha permesso che ciò avvenisse, a vari livelli.
Diceva bene Giorgio Buzzavo nelle interviste che mi ha concesso negli anni scorsi. Con buona pace dei soliti tifosi che si nascondono dietro scudetti meritati sul campo ma figli di una gestione truffaldina. L'allarme era suonato più volte ma nessuno l'aveva voluto ascoltare. Ci si è beati di lustrini fasulli a riverberare un successo effimero e molto relativo, dimenticando che, mentre le mani dei soliti noti si spellavano ad applaudire il gioco spumeggiante e cannibale della squadra di Pianigiani ed i presunti successi manageriali di Minucci, i vivai continuavano a vegetare, gli sponsor fuggivano, i proprietari mollavano il colpo, i palasport diventavano rapidamente obsoleti, il prodotto-basket peggiorava sino a diventare invendibile.
Poi, allo scoppiare del bubbone, via allo scaricabarile. Con l'ex divinità Minucci trasfigurata in ladro. Da idolatria ad iconoclastia, come bene ha scritto Tranquillo. Ma l'origine del male non sono certo i 5 milioni e spiccioli drenati dall'ex dirigente e dai suoi sodali in una decina d'anni. Per un club che nello stesso periodo ha movimentato oltre 130 milioni di euro, l'eventuale cresta compiuta da un manager e dai suoi complici nel sistema di fatturazioni fantasma e di finanza creativa sono soltanto un peccatuccio veniale.
Il vero problema, quello negato dai più a Siena ma comprensibile da molti altri altrove, risiede nelle modalità di gestione di un club che aveva un solo, vero polmone finanziario: la banca, Babbo Monte, il soggetto che aveva neutralizzato i debiti della vecchia gestione e che dopo un lungo corteggiamento aveva deciso di intervenire in prima persona sostenendo la qualità della vita del cittadino senese medio così come già faceva elargendo fondi a Università, ospedale, associazioni, Palio.
Vincere costa. Ed in Italia costa anche di più, a causa di un sistema fiscale penalizzante per lo sport professionistico. Rispettare le regole è difficile, bypassarle richiede creatività ma espone a rischi. Ed è esattamente quel che è accaduto a Siena. Lo affermano gli inquirenti, lo ribadisce Tranquillo. Carte alla mano, nessuna invenzione. Il metodo Minucci serviva a questo: inventarsi modi alternativi per ingaggiare grandi campioni senza pagare il dovuto a Erario e ENPALS (oggi INPS).
Porto una testimonianza diretta, giusto a sgombrare il campo dai dubbi. Gennaio 2012, cena informale con Claudio Coldebella ed alcuni colleghi della stampa casertana. Si parla anche di soldi: la Benetton Basket sta per chiudere i battenti, Enzo Lefebre sta battendo ogni strada per trovare nuovi finanziatori, la squadra è stata fatta con pochi spiccioli ed appena poche settimane prima si è sacrificato il futuro di Ale Gentile per acquistare due giocatori, averne un terzo già pagato da Milano e confermare l'unico contratto oneroso in scadenza. "Che volete che vi dica? - disse il dirigente castellano - Ditemi voi come si fa a competere in condizioni normali con chi propone un biennale a David Andersen da 3 milioni. Uno dichiarato e due in nero". Avessi pubblicato quelle parole all'epoca, Claudio ed io avremmo ricevuto una corposa querela. Ma era verità assoluta, come si sarebbe visto appena pochi mesi dopo quando Banca MPS tirò i remi in barca e costrinse Minucci a piazzare al Fener il suo pivot australiano con annesso contrattone fuori mercato.
Oggi sappiamo che in quella storiaccia tipicamente italiana c'era di tutto. Restano ancora le chiacchiere malevole ma mai provate sui rapporti con gli arbitri italiani dell'epoca, sussurri e maldicenze. Poi ci sono le certezze, anche se smentite dal Minucci stesso. Come nel caso Lorbek, quando l'ex dirigente con candore oggi afferma di un de relato di Diego Pastori che lui si sarebbe premurato soltanto di riferire al presidente di Lega Enrico Prandi. Peccato che alla stazione dei Carabinieri di Casalecchio di Reno non si sia presentato né Pastori né Prandi per sporgere la denuncia da cui partì l'indagine (archiviata un anno e mezzo dopo) per presunta frode sportiva. E peccato che non fu né Pastori né Prandi ad introdurre l'argomento nella riunione di Lega post Coppa Italia. Fu soltanto uno dei tanti episodi di destrutturazione del sistema basket italiano operato da un manager che voleva tiranneggiare, forte di un supporto finanziario che credeva eterno e del relativo potere, anche politico. Ma tutto ha una fine. Ed a volte la fine è ingloriosa.
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