Scusarsi dovrebbe essere la prassi. Invece lo smisurato orgoglio e una dose di maleducazione inducono molte persone a non voler compiere un gesto che dovrebbe essere naturale. Dusko Ivanovic è un signor allenatore e, come tanti esponenti della sua categoria (Frank Vitucci incluso), merita delle scuse. Io c'ero, quel pomeriggio dello scorso febbraio all'Isozaki di Torino quando Ivanovic pronunciò quelle frasi. In molti tra i presenti sorrisero, quasi di compassione, come se si fossero trovati davanti un vecchietto afflitto da demenza senile che sproloquiava. Ivanovic invece pronunciò concetti chiave: quella pesante sconfitta contro Milano nel quarto di finale di Coppa Italia era il classico tipo di partita che avrebbe insegnato alla sua Virtus come vincere uno scudetto. Per chi non capisce i concetti elementari, traduco: prendere una sonora batosta da una squadra che si ritiene superiore abitua il gruppo a cementarsi, a lavorare più duramente, a voler dimostrare di poter dare sempre di più. Ciò che è esattamente avvenuto in questi playoff.
Ivanovic è montenegrino ma da giocatore è stato allo Jugoplastika Spalato, quella meravigliosa fucina di talenti che incantò l'Europa. C'era un giovanissimo Kukoc con lui ma anni prima, con quella casacca, si era visto e aveva vinto anche un certo Pero Skansi. Che in difesa aveva idee tattiche parecchio simili a quelle di Ivanovic e che sapeva non solo puntare sui giovani ma anche valorizzare quei veterani che avevano ancora molto da dare. Il simbolo di questa Virtus scudettata per la diciassettesima volta è Toko Shengelia, un georgiano sbarcato a Bologna a causa delle conseguenze della guerra in Ucraina. Se quel pazzo megalomane di Vladimir Putin non avesse pensato di giocare a Risiko con le vite di centinaia di migliaia di persone, Shengelia sarebbe rimasto a Mosca assieme a Daniel Hackett e a tanti altri campioni che invece hanno scelto di andarsene alla prima occasione. Ma lo Shengelia sbarcato al "Marconi" era tutto fuorché un ragazzino in rampa di lancio. Piuttosto era un elemento esperto che aveva già conosciuto la NBA e che giocava stabilmente in Eurolega. Si pensava che avesse già raggiunto la piena maturità sportiva e che nel giro di un paio di stagioni avrebbe imboccato la china discendente. Invece Toko ha stupito dimostrando maggiore freschezza, volontà di sacrificarsi nonostante una commozione cerebrale e una superiore capacità d'interpretare il gioco a dispetto delle trentacinque primavere.
Quel che non è riuscito a Marco Stefano Belinelli, il cui ultimo anno da giocatore professionista è stato un calvario. Tredici mesi fa l'ex ragazzo di San Giovanni in Persiceto (il paesello del fiero alleaten Galeazzo Musolesi, per citare il povero Bonvi) veniva incoronato MVP della LBA. Ora appare l'ombra di quel che è stato, ridotto a comparsa non più capace di pungere con i suoi movimenti di piedi, le uscite dai blocchi, le sospensioni fuori equilibrio. Per lui la cura-Ivanovic ha funzionato al contrario, spingendolo ai margini delle rotazioni. E chissà cosa sarebbe successo se Will Clyburn non si fosse infortunato. La carriera di Belinelli, partita nell'ultima derelitta Virtus di Marco Madrigali ventitré anni fa, è finita stasera. Da domani dovrà solo scegliere come approcciare la sua prossima vita, se passare a un ruolo dirigenziale, provare a diventare allenatore oppure lasciare il basket per fare altro.
Ci sono altre tre storie che meritano di essere raccontate in questo scudetto virtussino. Quella di Achille Polonara la conoscono tutti ma va ribadito il coraggio di un ragazzo che in due anni si è visto piovere addosso due asteroidi da Armageddon personale. Superato il tumore al testicolo, ora Achi deve fronteggiare la leucemia mieloide, un male subdolo. Ha fatto benissimo Mario Castelli a ricordarlo in cronaca: queste situazioni di dolore servono a promuovere la sensibilizzazione nei confronti delle malattie e l'importanza della donazione. Chi può, contribuisca con il proprio midollo osseo. Achi forse non giocherà più ma a trentatré anni e con una meravigliosa famiglia attorno ha tutto il diritto di vivere ancora a lungo. Gli serve solo il giusto supporto per farlo.
Poi c'è Brandon Taylor, in play tascabile pescato in ACB da una squadra retrocessa. Altra magata di Ivanovic, che porta un giocatore simile a vincere lo scudetto? No. Taylor lo conoscevo da quando giocava (benissimo) in A2 a Bergamo ma in pochi gli avevano offerto delle chances ad alto livello. Per abnegazione, spirito positivo, voglia di fare, Taylor è il giocatore che chiunque vorrebbe. Calatosi in punta di piedi, è stato fondamentale in un sistema tattico che privilegiava la circolazione di palla per imbeccare al meglio il talento di Shengelia e che sfruttava le riaperture del georgiano sul perimetro per i tanti giocatori liberati dai raddoppi sistematici prima di Milano e poi di Brescia. Se Bologna non dovesse confermarlo (e probabilmente non lo farà per tanti motivi), chi lo prenderà farà un affare.
Infine ci sono i lunghi italiani, specie definitiva in via d'estinzione. Sarà, ma ho visto giocate solide, concrete e puntuali di Momo Diouf, il ragazzone scoperto da Pillastrini a Reggio, e di Nicola Akele, il montebellunese giramondo. Il CT Pozzecco sicuramente ha gradito, ora tocca a lui credere in questi elementi e a loro confermare quanto di buono fatto - Diouf sontuoso contro Bilan, Akele eccellente in difesa su Mirotic in semifinale - per ricostruire il reparto in azzurro. A proposito, messaggio per Willy Caruso: molla immediatamente la panchina triste di Milano, accetta un robusto taglio d'ingaggio e vai a giocare in qualche squadra che ti accordi fiducia. A ventisei anni non c'è tempo da perdere.

Nessun commento:
Posta un commento