Sarà la retorica. Oppure l'amore per le esagerazioni. O magari quel tarlo che proprio non ne vuole sapere di abbandonarmi e mi ricorda il passato. Però tra le roboanti dichiarazioni ("Eurolega in cinque anni" prima per assoluto distacco) e la cruda realtà di una retrocessione passa un oceano. Quasi la stessa esistente tra il lungomare di Barcola e la sponda statunitense dell'Atlantico. Quindi perdonatemi se stasera, scrivendo queste righe di considerazioni post verdetti retrocessione, potrei risultare più caustico del solito. Diciamo che la discesa in A2 di Trieste, seconda a cadere dopo Verona, non mi coglie impreparato né di sorpresa. E se l'inciampo della Scaligera è stato frutto di una stagione nata male e proseguita peggio, il rientro in cadetteria degli alabardati è solo il naturale epilogo di una crisi perdurante da anni.
A voler essere cattivelli o semplicemente amanti dei parallelismi, Trieste ricorda un po' Forlì. Non per conformazione geografica ma per storie di basket. Un decennio fa la piazza romagnola era preda di continue e cicliche crisi, poi chiuse in maniera definitiva (letteralmente) dalla patetica vicenda Boccio-Chirisi, due personaggi che ai più erano sembrati dei liquidatori per non dire dei veri e propri becchini di una società-zombie, morta ma mai seppellita. La Trieste attuale è figlia di un fallimento, quello del 2004 seguito ad un'altra retrocessione annunciata: società rifondata da capo, condannata per anni a ristrettezze ed a categorie infime, poi risollevatasi anche con l'aiuto di qualche socio nascosto da fuori ma interessato ad alcuni asset (nessuno si è mai chiesto come mai per un periodo i gioielli del settore giovanile locale passassero immancabilmente a Venezia?). Poi la grande illusione con Alma, divenuta nel tempo il grande bluff: anche quella una tragedia largamente prevista dai più. Ecco, Trieste era cotta a puntino per saltare in aria nel 2019. E lo sapeva, eccome se lo sapeva, al punto da aver costruito all'epoca una squadra all'estremo risparmio, con moltissime scommesse e con la prospettiva di non riuscire a completare la stagione senza un aiuto.
L'aiuto poi arrivò e fu provvidenziale. Si trattò di Allianz, già partner prezioso del palasport e convinto quasi controvoglia a dare abbondante danaro per evitare che la società implodesse, zavorrata com'era dalle pessime condizioni in cui il vecchio sponsor-proprietario l'aveva lasciata. E qui era tornato in auge un vecchio modus operandi, quello di spararle grosse, di puntare troppo in alto, la sindrome di Icaro: invece di preferire il caro vecchio lavoro a fari spenti, meglio dichiarare ambizioni insostenibili con la prospettiva (assurda) di attirare nuovi investitori. Perché Allianz era stata categorica, tre anni di supporto finanziario (e che supporto!) ma nulla di più. Da allora, una sparata dopo l'altra: il tentativo per la BCL, impossibile perché per la graduatoria non c'era margine; poi nell'ultimo anno dello sponsor assicurativo un altro assalto impossibile alla qualificazione in Europa. Infine, con l'arrivo degli americani, le dichiarazioni roboanti e risparmiabili sulla volontà di arrivare in Eurolega. Uguali o peggio a quelle di Boccio e Chirisi che nel 2014 tirarono in ballo la massima competizione continentale per club come traguardo per un immediato futuro di un club di A2 decotto, finanziariamente oltre la data di scadenza, con i creditori alle porte e una credibilità azzerata dalla successiva pretesa di ricapitalizzare con della carta straccia.
L'Eurolega sognata dal Cotogna Sports Group - società nata pochi mesi fa e senza esperienze pregresse, è bene ricordarlo - non era solo improbabile ma impossibile. Eppure qualcuno ci ha creduto. E forse erano gli stessi soggetti che nel 2003 ascoltarono ed applaudirono Roberto Cosolini, all'epoca presidente del precedente club cestistico, quando dichiarò che l'obiettivo di crescita della sua società era lo scudetto da raggiungere con un piano triennale. Obiettivo mancato, anzi arrivò ben prima la sparizione. Poi si seppe che era la classica boutade, un modo per smuovere le acque e per attirare l'attenzione mediatica, meglio ancora se di qualche azienda interessata alla vetrina sportiva. Adesso come allora, la piazza giuliana si lasciò distrarre ed illudere salvo svegliarsi con l'angoscia di una retrocessione. All'epoca si andò anche oltre, ossia fallimento e ripartenza dal basso. Stavolta chissà cosa accadrà.
Mi limito piuttosto ad osservare alcuni elementi. Il primo è l'assoluta imprevedibilità di un campionato in cui tra la retrocessione e l'ultimo posto per i playoff si sono registrati la miseria di sei punti ma l'abbondanza di sette squadre: se non è un record, ditemelo voi. Delle formazioni che hanno mantenuto la categoria ce ne sono alcune che hanno speso oggettivamente tanto e male ma per motivi diversi: Scafati ha rifatto la squadra in corsa, non avendo capito per tempo la centralità della figura dell'allenatore tant'è vero che prima è stato bruciato Rossi e poi è giunto Caja che però ha litigato col club per motivi tecnici; Reggio Emilia ha buttato dalla finestra soldi, tesseramenti, anche progetti a causa di equivoci di fondo; Napoli per la seconda volta in fila ha rischiato tanto, forse troppo, oltre ad aver bruciato allenatori di nome ed aver sbagliato la scelta di troppi stranieri. Varese si è ritrovata in una posizione scomodissima, vittima dei propri errori ed omissioni tanto da aver subito una pena sin troppo lieve e misurata con un bilancino sospettato di parzialità decise in alto loco. Treviso è l'emblema delle nozze coi fichi secchi, salvata da una giocata in extremis di quell'Adrian Banks che Trieste non volle più tenere per onerosità connessa all'età anagrafica, altrimenti oggi sarebbe toccato a lei piangere lacrime amare. Che poi sono quelle versate anche da Brescia: salva sì ma fuori in extremis dai playoff ossia un mezzo fallimento mitigato solo dalla Coppa Italia in bacheca.
La seconda considerazione riguarda l'assenza di reale progettualità. Si costruisce poco nelle società, le idee così come i manager sono oggetto di masticazione e rifiuto stagione per stagione, motivando in tal modo il pessimo andazzo di un movimento che stenta a crescere. L'isola felice non è Milano che conferma Ettore Messina per assenza di alternative, né la Bologna bianconera che ringrazia giustamente Segafredo Zanetti ma rifiuta un elemento del calibro di Claudio Coldebella perché esterno al cerchio magico del patron. Nemmeno Venezia, più ricca rispetto al passato, è poi così lieta se si pensa al fatto che del nuovo palasport non se ne parlerà più, che non è poi così certo che Neven Spahija resti su quella panchina, che provare a vincere qualcosa sarà sempre più difficile. L'isola felice veste il bianconero e ha due nomi con la stessa consonante iniziale ossia Tortona e Trento. La creatura di patron Gavio non è sperpero di danaro ma attentamente bilanciata su un modello che prevede prima di tutto teste pensanti - e tra coach Ramondino ed il suo staff, Ferencz Bartocci dietro la scrivania ed altri manager, non si può dire che al Derthona la materia grigia e le idee manchino. L'Aquila vola anche al di sopra delle proprie possibilità riuscendo a coniugare un budget nella norma, un vivaio che produce, uno staff tecnico di ottimo livello, un parco italiani ben pensato: merito di Trainotti, creatore del modello tridentino e plasmatore del suo successore attuale, Rudy Gaddo, che alla sua stagione di debutto senza rete di protezione ha fatto quasi meglio del predecessore. Il messaggio è chiaro: se volete investire, fatelo in teste pensanti.
L'ultima considerazione riguarda la cabala e, nuovamente, la figura di Adrian Banks. Lasciata Brindisi non senza polemiche nel 2020, la guardia di Memphis non è stata esattamente un talismano per chi lo ha firmato: la Fortitudo aveva pensato di costruire un modello offensivo imperniato su di lui oltre che su Aradori e Happ ma fu un flop clamoroso; Trieste lo prese subito dopo come perno di un'idea tattica da gioco entusiasmante con obiettivo playoff senza però arrivare al dunque; Treviso l'ha voluto quale bocca da fuoco principale per una salvezza tranquilla incappando in una stagione altalenante e risolta solo alla penultima, col fiatone. Avere Banks in squadra, aiuta. Ma perderlo può essere deleterio: senza di lui, la Effe prima e Trieste poi sono scese. TvB può permettersi il lusso di rischiare una sorta di maledizione che altre realtà hanno già sperimentato? Forse è per questo motivo che l'annunciato ritorno del pistolero nella Bologna biancoblu è stato bloccato da insistenti voci di rinnovo in riva al Sile. Magari qualcuno ha deciso di non correre altri rischi, specie dopo aver giubilato due anni fa un certo David Logan perché ritenuto vecchio, condizionante, costoso e quindi inutile. A quarant'anni suonati il Professore ha dato una lezione definitiva con i 5 punti che hanno salvato Scafati e condannato Brescia. Se vi pare poco, non so che dirvi.

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