lunedì 21 settembre 2020

Cosa resterà...

 ...di questa maxi Supercoppa?

Prendo spunto da una vecchia canzone di successo di Raf per una riflessione sui contenuti emersi dall'inutile torneo di preseason voluto da LBA per ravvivare l'interesse nei confronti della pallacanestro dopo la pausa per il lockdown. Una manifestazione, diciamolo pure, di dubbio valore tecnico e con tutte le stigmate delle amichevoli precampionato, pur con una patina di inutile ufficialità. Fosse almeno stata una novità assoluta si sarebbe potuto giustificare il tutto con la voglia di fare qualcosa di diverso. Invece no, perché una Supercoppa comprendente tutte le squadre di Serie A si era già vista esattamente venti anni fa. Correva l'anno 2000, si era agli sgoccioli della compresenza tra A1 ed A2 e qualcuno pensò che un evento estivo di grande portata potesse non solo dare pubblicità al movimento ma aiutare le squadre a rodare i meccanismi.

Come andò lo sanno tutti. Per chi ha la memoria corta, ad emergere dalle qualificazioni furono le due Virtus, Bologna e Roma, mentre Fortitudo e Treviso (menomate dalle assenze estive azzurre) erano già in possesso del pass delle semifinali in quanto detentrici rispettivamente di scudetto e coccarda. Nel deserto di quella bruttura architettonica del PalaMensSana di Siena vinse la Virtus inattesa, quella capitolina, con Jerome Allen protagonista: un successo che avrebbe contribuito da lì a poco a convincere l'ingegner Toti a prendere le redini del club ma che rimase gioia isolata in un ventennio avarissimo di soddisfazioni con solo tre finali disputate (tutte ovviamente perse). Per gli amanti della cabala - e non della Qabbalah - potrebbe essere curioso il parallelo con il presente, con Milano che vince il trofeo contro la Vu Nera invertendo teoricamente le gerarchie dell'anno scorso. I tifosi meneghini sono autorizzati a sfoderare l'arsenale di scongiuri ed esorcismi al fine di sperare che questa Supercoppa in formato fin troppo allargato non sia foriera di illusioni come avvenne per Er Proggggetto der Ciglione

I virtussini, scottati dal ko casalingo e pure da qualche errore qua e là nelle qualificazioni, possono sicuramente ambire ad un ruolo di contender. Tornando a vent'anni fa fu necessario attendere il derby di dicembre, quello del Grande Freddo, per poter affermare con certezza che sì, quella Virtus era davvero un mostro inarrestabile. Sulla sua panchina sedeva il Prode Ettore, ormai consacrato tra i grandi allenatori, ed in campo la prematura decisione di ritirarsi di Danilovic e la positività all'antidoping di Sconochini furono due inattese benedizioni che permisero di varare il backcourt più forte mai visto in Italia con Jaric-Rigaudeau-Ginobili. E pure la Fortitudo ci mise del proprio spendendo follie per prendere Meneghin jr. quasi obbligando i cugini a ripiegare su Jaric, scaricato dalla metà biancoblu di Felsina e scivolato al secondo giro del Draft.

Il tempo avrebbe detto che quella Virtus, imbattibile o quasi sul parquet, aveva i piedi d'argilla a causa di un proprietario megalomane e poco avvezzo alla cura dei bilanci di casa propria. Col senno di poi, forse la malinconia di Rashard "Miglio Verde" Griffith era solo un presagio di quel che sarebbe avvenuto. Oggi la Virtus è nelle salde mani di Massimo Zanetti, l'uomo della tazzina che da quando ha rilevato la società dopo l'ingloriosa discesa in A2 ha improntato un progetto ambizioso. I soldi ci sono e sono dannatamente tanti e veri, i progetti sono reali, l'allenatore non sarà il santone Messina ma è un fascio di nervi ed una massa di cervice come Sasha Djordjevic. La squadra è nuovamente costruita sul canovaccio della Serbia con il duo Teodosic-Markovic a prendersi la scena e teoricamente dispone di più alternative rispetto alla passata annata. Manca ancora qualcosina in termini di pieno rodaggio ma col passare delle settimane questa Segafredo non potrà far altro che crescere.

Milano dopo due anni di bastonate assortite ha riaperto la bacheca con la pallida latta della LBA. Un successo che fa morale e che dovrebbe nel breve periodo far dimenticare i tantissimi errori commessi in precedenza, non solo sul mercato. Certo, sbagliando si impara, ed a questo punto c'è da domandarsi se Davide Moretti non abbia capito di aver fatto un errore terribile ad accettare non tanto il contrattone meneghino ma la prospettiva di far parte del roster attivo dei biancorossi. Per migliorare ed accumulare la necessaria esperienza è fondamentale giocare e - ça va sans dire - sbagliare a profusione, senza che il supremo interesse di un risultato di club tarpi le ali ad un giovane. Invece finora Davide si è visto pochino, con un ruolo marginale, richiamato in panca ai primi errori. Nel biennio trevigiano l'ottimo Stefano Pillastrini gli concedeva spazio anche a costo di qualche sbaglio da matita blu purché crescesse: Pilla pagò quella scelta con lo 0-2 iniziale nei quarti playoff del 2017 contro la Fortitudo ma ciò contribuì alla maturazione del ragazzo. Resto convinto che il miglior modo per una società di investire nei giovani sia spedirli in prestito dove possano davvero aver minutaggio senza troppe preoccupazioni di classifica: sono curioso quindi di capire cosa farà in stagione Giordano Bortolani, già star a Biella in A2 ed ora chiamato al grande salto col prestito annuale a Brescia. Temo però che la politica cannibale di Milano che è già costata cara in chiave azzurra - ricordate i passaggi a vuoto di Fontecchio, Della Valle, Pascolo, Abass? - non preveda granché di buono.

Dietro le due big ci sono le solite due pretendenti al ruolo di sorpresa. Cioè Venezia, sempre più vecchia e legata al tiro da 3 oltre che alle lune di Stone e Daye, e la pazza Sassari di Pozzecco. "Squadra che vince non si cambia", hanno pensato in laguna: invece di far tesoro di quanto avvenuto lo scorso inverno con tutti i segnali d'allarme raccolti - Stone che fa una fesseria casalinga e diventa ingestibile, Daye primadonna senza freni, Bramos sempre più macchinoso e prevedibile, De Raffaele che senza la zona 3-2 fatica a far quadrare la difesa - si è preferito continuare con lo stesso identico gruppo, giubilando il solo Udanoh per inserire un Fotu più utile in post basso in Italia e pareggiando il conto degli italiani firmando D'Ercole che già faticava nella natia Pistoia e che ora più dello sparring partner in allenamento non è in grado di fare. Sassari invece ha cambiato molto, più per esigenze altrui che per reale convinzione. Tillman è la nuova attrazione principale della Dinamo in cui la cabina di regia italiana è ormai consolidata. Il cardinal Sardara, fallita l'operazione Torino, è riuscito a strappare la follia della bolla di Olbia in un resort già tacciato di essere un potenziale focolaio di infezione: potenza della politica sarda o semplice paraculaggine?

Poi vengono tutte le altre. C'è la Fortitudo di Meo Sacchetti che sta faticando non poco a trovare la quadra; c'è Reggio Emilia che forse ha fatto un affare con Antimo Martino ma che pecca ancora di ingenuità; c'è Cantù che è un cantiere aperto in cui i giovani come Pecchia e Procida avranno spazio nella corsa alla salvezza; c'è Trento che finora sopravvive sull'esperienza dello zoccolo duro in attesa che i nuovi americani capiscano come approcciare mentalmente il campionato italiano; c'è Cremona che sul fronte societario si è salvata quasi in extremis e ha costruito la squadra puntando molto sulla dimensione statunitense; c'è Varese che, caso più unico che raro, ha esonerato l'head coach in preseason affidandosi ad un debuttante di carattere; c'è Trieste che ha costruito un gruppo dinamico e decisamente adatto al gioco di Dalmasson ma che richiede uno stato di forma eccellente per rendere al massimo; c'è Pesaro che dopo le ristrettezze passate ha speso soldi veri su giocatori e tecnico di assoluto pedigree, sperando che bastino; c'è Brescia che con la nuova proprietà aspira ad un futuro da grande e che scommette sulla continuità tecnica di Esposito; c'è Brindisi che ha salutato di malavoglia gli americani che l'avevano portata in alto e che ora spera di non doverli rimpiangere; c'è Roma che è la prima candidata a retrocedere ma che è più attenta ad un'altra partita, quella fuori dal campo, per il futuro della società.

E c'è Treviso. Che ha iniziato male la Supercoppa e si è riscattata strada facendo, anche per demeriti altrui. Una Treviso costruita in economia, che ha perso per strada nomi di peso in campo ed anche ottimi ed entusiasti professionisti fuori dal campo. Una Treviso ancora aggrappata al talento di David Logan e che spera che quanto fatto possa bastare per evitare la discesa al piano di sotto, salutato con giubilo appena 15 mesi fa. Nel mezzo, per tutte o quasi, vige l'incertezza sulla presenza di pubblico, una voce che incide tra il 25 ed il 40% per i bilanci dei club. L'impossibilità di far cassa in estate tramite gli abbonamenti si sta traducendo nei primi mal di pancia autunnali, appena appena mitigati dalla prima timida apertura governativa. Certo, non saranno 700 spettatori a partita (quanti paganti, tolti sponsor e accrediti?) a salvare i conti della maggior parte delle società, ma è già qualcosa. L'obiettivo affatto nascosto è di graduale crescita per arrivare ad almeno 2mila persone a palazzo di media entro Natale per poi recuperare una parvenza di normalità nel girone di ritorno. Basterà a salvare il basket italiano nell'anno dei dubbi esistenziali?

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